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De Gasperi: l’europeista che vinse perdendo

by Roberto Bertoni Bernardi

di Roberto Bertoni Bernardi. Giornalista e scrittore.

Settant’anni senza Alcide De Gasperi e dobbiamo stare attenti a non cedere anche noi alla tentazione di farne un santino o, al contrario, di demonizzarlo per i suoi errori.

Trentino, classe 1881, De Gasperi nacque quando ancora quelle terre erano irredente. Per questo motivo, la sua prima avventura politica fu al Parlamento di Vienna, dove venne eletto per rappresentare una realtà ribollente di rabbia e incerta sul proprio futuro. Fu in quegli anni, segnati anche dall’orrore del primo conflitto mondiale, che egli maturò quegli ideali europeisti che lo avrebbero indotto, tanti anni dopo, a immaginare per l’Italia un ruolo di primo piano nel contesto della nascente Comunità europea.

Nulla fu semplice nella sua vita. Vicino al popolarismo di don Luigi Sturzo, prese fin dall’inizio le distanze dal Fascismo, divenendone infine uno strenuo avversario e pagando per questo un prezzo, personale e familiare, altissimo. La sua avversione era innanzitutto di carattere etico: non sopportava quell’abisso di violenza e d’odio, non tollerava la deriva sempre più autoritaria, meno che mai poteva sopportare le Leggi razziali e infine l’ingresso in guerra al fianco di Hitler. Tra i suoi motivi di sofferenza e di avversione al regime, c’era anche il trattamento riservato a don Luigi Sturzo, costretto all’esilio nel 1924 e obbligato a rifugiarsi per oltre vent’anni negli Stati Uniti: un’esperienza che lo cambiò profondamente, mutandone in parte la visione del mondo.

Insomma, non c’era una personalità più adatta della sua a rifondare il Cattolicesimo democratico, attribuendogli una veste pienamente politica e delineandone il ruolo che avrebbe esercitato a partire dal dopoguerra. Solo un personaggio convintamente italiano ma dal rigore asburgico avrebbe, infatti, potuto realizzare la riorganizzazione di un partito che, secondo lui, avrebbe dovuto rappresentare la società nel suo insieme, costituendo un punto d’incontro per visioni differenti, accomunate dalla matrice cristiana e solidaristica e da un sincero afflato a prendersi cura delle classi più svantaggiate.

Fin qui abbiamo delineato il De Gasperi intellettuale, l’ideologo, il naturale interprete del Codice di Camaldoli, redatto nel luglio del 1943 da alcuni dei principali esponenti della futura classe dirigente democristiana e tra i pilastri dell’Assemblea Costituente. Esso, infatti, poneva l’essere umano al centro del modello di sviluppo, sulla base del pensiero di Emmanuel Mounier e Jacques Maritai e in nome della dottrina sociale della Chiesa di cui Montini, il futuro papa Paolo VI, fu uno dei più convinti assertori.

C’è poi il De Gasperi politico, con le sue luci e le sue ombre. Perché se è vero che fu indubbiamente uno statista, capace di tenere testa persino a Pio XII, nel momento in cui pretendeva un’alleanza fra la Dc e i missini per scongiurare che i comunisti potessero amministrare la Capitale (1952), e se è vero che aveva una concezione del potere non padronale, incentrata sul dialogo e sul confronto con gli avversari, è altrettanto vero che i suoi governi si resero protagonisti di alcuni episodi tutt’altro che commendevoli. Innanzitutto, l’espulsione del Pci dal governo nel ’47 per ottenere il sostegno e gli aiuti economici americani previsti dal Piano Marshall: una scelta che ha minato la già scarsa sovranità del nostro Paese, rendendolo assai poco autonomo nelle scelte internazionali e favorendo i fenomeni degenerativi successivi. In secondo luogo, la pessima gestione dell’ordine pubblico: la Celere di Scelba è passata alla storia per episodi di indicibile violenza, eguagliati solo dai due abissi di Genova nel 1960 e nel 2001. Infine, la cosiddetta Legge truffa del ’53, la cui bocciatura, ad opera degli elettori, avrebbe posto fine all’esperienza di governo degasperiana e aperto una nuova era nella Dc e nel Paese.

Settant’anni e abbiamo tutti gli elementi per tracciare un bilancio di quella stagione. A parziale discolpa di De Gasperi, possiamo dire che prese in mano un’Italia devastata dalla guerra, in preda al terrore e alla miseria, afflitta da scontri tremendi fra le opposte fazioni ed esposta a comprensibili, e tuttavia ingiustificabili, vendette degli anti-fascisti per i soprusi subiti per due decenni. È indispensabile, però, dire alcune scomode verità. Fra De Gasperi e Dossetti, noi ci ostiniamo a preferire quest’ultimo, la sua visione maieutica, la sua idea che la politica debba nascere nel grembo della società e svilupparsi fra la gente, la sua intransigente difesa dei principî costituzionali, di cui fu custode fino agli ultimi giorni della sua vita, e il suo abbandono della vita pubblica quando prese atto di non poter più esercitare il proprio ruolo di coscienza critica all’interno di un partito che stava sviluppando, già allora, i germi di quel governismo che lo avrebbe condotto a un’egemonia senza requie e, inevitabilmente, all’asfissia. Parliamo di quel fenomeno che, molti anni dopo, Moro avrebbe mirabilmente riassunto in un’intervista rilasciata a Scalfari: «Governeremo lo sfascio del Paese e affonderemo con esso». Senza dimenticare il progressivo allontanamento dall’eredità azionista di Parri e dall’esperienza del Cln per lasciar spazio a una contrapposizione, anche di matrice sindacale, che ha finito col dilaniare una Nazione (cito ancora Moro) «dalle passioni forti e dalle istituzioni fragili».

Non sarebbe stato possibile comportarsi diversamente? Forse sì. Fatto sta che oggi ci interroghiamo su alcune scelte di quegli esecutivi, a cominciare dall’adesione al Patto Atlantico, che nel corso del tempo hanno finito col confliggere con l’ideale europeista di cui pure proprio De Gasperi è stato uno dei massimi sostenitori. Risiede qui il tratto peculiare di una vita di frontiera, di un’avventura umana e politica degna del massimo rispetto, capace di immaginare scenari inediti, di delinearli con rara tenacia e di configurare un orizzonte di pace di cui tuttora traiamo i benefici. Peccato che “pace” sia oggi una parola impronunciabile, per via dei troppi vincoli che caratterizzano un’Italia la cui vitalità intellettuale è stata ingabbiata anche dalle scelte di uno statista che, per una volta, ha pensato al benessere immediato anziché a quello delle future generazioni, di fatto tradendo uno dei suoi più celebri e mirabili aforismi.

In queste contraddizioni, inscritte nella tragedia nazionale, che visse e subì in prima persona, sono racchiuse le vittorie e le sconfitte di un punto di riferimento della nostra democrazia. Un anti-leader che vinse perdendo molte battaglie, che fu costretto ad assumere decisioni talvolta drammatiche, che fu, al tempo stesso, vittima e precursore dei tempi e che per questo merita gratitudine e rispetto. Senza peana e senza damnatio memoriae, analizzando con onestà la persona e la sua epoca e rendendo omaggio a una figura che ebbe soprattutto un merito: non arrendersi alla barbarie quando tanti, troppi altri avevano già ampiamente ceduto. Per convinzione o per rassegnazione non fa differenza.

Ph. Alcide De Gasperi, © Public domain, via Wikimedia Commons

 

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Roberto Bertoni Bernardi

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