di MAURIZIO AMBROSINI. Professore di Sociologia delle migrazioni. Dipartimento di Scienze Sociali e Politiche, Università di Milano.
Tra i vincoli che frenano lo sviluppo economico e sociale del nostro Paese, gli scarsi investimenti pubblici e privati in attività di ricerca sono uno dei più insidiosi: non si vedono a prima vista, non sono come le buche per le strade che attirano le proteste dei cittadini, ma nel lungo periodo si ripercuotono sulla capacità d’innovare e di progredire, azzoppando lo sviluppo.
Un collega economista, commentando la sostanziale stagnazione italiana dall’introduzione dell’euro in poi, spiegava: «La nostra ricerca era la svalutazione». Finché si poteva svalutare la lira, si recuperavano margini di competitività. Abolita con l’euro la leva delle svalutazioni competitive, ci siamo ritrovati con il fiato corto. Non siamo riusciti a rimpiazzare la svalutazione con robusti investimenti nella ricerca e nella sede per eccellenza della ricerca avanzata, che rimane l’università, soprattutto nel nostro Paese. L’incremento degli investimenti promosso dal Pnrr non basta a colmare un divario cresciuto nel tempo. Per fornire qualche dato: nel 2022, secondo Eurostat, l’Italia ha investito 214 euro a persona per spese in ricerca e sviluppo utili ai fini innovativo-competitivi, cresciuti rispetto ai 196 euro precedenti, ma la media Ue è di 262 euro, il dato tedesco raggiunge i 517 euro, quello olandese i 440, quello francese i 263.
Occorre osservare tuttavia che i ricercatori italiani fanno le classiche “nozze con i fichi secchi”: la comunità accademica italiana è stabilmente tra le prime dieci al mondo per numero di articoli pubblicati e per citazioni ricevute. E i cervelli formati in Italia, e non trattenuti nel nostro Paese anche per gli scarsi investimenti nella ricerca, sono sempre più numerosi e apprezzati all’estero. Segno che, nonostante tutto, i nostri atenei sfornano menti eccellenti. Inoltre, sta migliorando la capacità delle università italiane di attrarre studenti stranieri: nell’anno accademico 2021-2022 (l’ultimo dato disponibile), gli studenti con diploma di scuola secondaria conseguito all’estero erano 11.659, con un incremento del 3,5% rispetto all’anno precedente. Luci e soprattutto ombre del sistema italiano della ricerca sono rivelate dal- le classifiche internazionali delle università. Quella appena uscita, del Center world university rankings (Cwur) colloca 67 atenei italiani nella lista Global 2000, su oltre 20.000 università analizzate. Nessuna però si classifica tra le prime 100, e il 75% ha perso posizioni rispetto all’anno precedente. Siamo sotto pressione per la crescita degli investimenti in ricerca dei Paesi emergenti, come la Cina e l’India, che inseguono altre tigri asiatiche già affermate, come il Giappone e la Corea del Sud.
Certo, queste classifiche vanno prese con le molle. Dipende da quali indicatori sono considerati e come sono calcolati. Basti pensare che l’università Bocconi figura solo al 26° posto tra le università italiane, il che fa dubitare sulla validità dei criteri adottati. Nella classifica Cwur gli indicatori sono: qualità dell’istruzione (25%), occupabilità (25%), qualità dei docenti (10%) e ricerca (40%). Per esempio, l’occupabilità dipende anche, e molto, da fattori esterni, come la ricettività del mercato del lavoro e la salute complessiva dell’economia. La qualità dell’istruzione è quanto mai difficile da valutare. Pesano inoltre a nostro sfavore fattori come la scarsa conoscenza della lingua italiana nel mondo, che frena la circolazione delle pubblicazioni italiane, nonché la scarsa disponibilità di alloggi a prezzo calmierato per gli studenti, che impatta sulla nostra capacità di attrarre studenti dall’estero.
SE IL NOSTRO PAESE NON INVESTIRÀ DI PIÙ NELLA RICERCA E NELL’ALTA FORMAZIONE, COME STATO, IMPRESE, FAMIGLIE, IL NOSTRO FUTURO DI PAESE AVANZATO E COMPETITIVO SARÀ MESSO A RISCHIO.
Si può dunque discutere di questa, come di tutte le altre graduatorie delle università. Ma un dato rimane incontrovertibile: se il nostro Paese non investirà di più nella ricerca e nell’alta formazione, come Stato, imprese, famiglie, il nostro futuro di Paese avanzato e competitivo sarà messo a rischio. Continueremo ad attrarre turisti, ma la nostra capacità d’innovare, inventando nuovi prodotti e processi produttivi, sarà declinante. Rischiamo di essere sempre meno un Paese per giovani.
Ph. Inaki Del Olmo © via Unsplash
Maurizio Ambrosini
Professore di Sociologia delle migrazioni. Dipartimento di Scienze Sociali e Politiche, Università di Milano.