di Fulvio Ferrario. Professore di Teologia dogmatica presso la Facoltà valdese di teologia di Roma.
Ogni teologia, quindi non solo – ad esempio – quella “del Sud del mondo”, è sempre stata contestuale: un conto è annunciare l’Evangelo nelle foreste del Congo, un altro farlo a New York. Domande, linguaggi, stili argomentativi dipendono dal contesto in misura decisiva. Nell’attuale geografia cristiana è dunque richiesta una teologia contestuale europea: con quali caratteristiche?
Le teologie della liberazione hanno insegnato a tutte e a tutti l’importanza del contesto (geografico, culturale, sociale e politico) nel lavoro intellettuale, compreso quello teologico. In realtà, ogni teologia è sempre stata contestuale: abbiamo avuto teologie prodotte da uomini alla guida di Chiese locali (un vescovo della città di Ippona, in Nordafrica, ha scritto ad esempio qualche testo importante), teologie nate nella meditazione monastica teologie “urbane” nell’epoca dei Comuni; e ancora, la teologia ha dato origine all’Università, è nata la figura del pastore protestante, in possesso di una formazione (teoricamente) di alto livello ecc.
Insomma, ogni società ha avuto la sua teologia e anche le sue figure di “operatori teologici”, recentemente anche di operatrici, con l’emergere impetuoso della consapevolezza di genere. Le teologie contestuali ci hanno resi attenti a ciò che è sempre stato decisivo, ma spesso rimosso nella sua rilevanza culturale. Un conto è annunciare l’Evangelo nelle foreste del Congo, un altro farlo a New York: domande, linguaggi, stili argomentativi dipendono dal contesto in misura decisiva.
Ora che abbiamo capito bene questo punto, possiamo fare un secondo passo: la teologia contestuale non è solo quella “del Sud del mondo”. Fare teologia contestuale non significa “fare i brasiliani o le africane”, bensì l’esatto contrario: il nostro contesto è l’Europa post-cristiana.
Terzo punto. Circola, nelle Chiese, una certa retorica della “periferia”: essa è bella e buona, specialmente, parrebbe, se chi ne parla è insediato nel centro del potere religioso.
Sotto la chiacchiera demagogica, c’è però, nel discorso sulla periferia, un importante nocciolo evangelico: Cristo «soffrì fuori dalla porta della città» (Ebr. 13,12). Ovviamente non si tratta, o non solo, di una dimensione topografica, bensì spirituale.
Ebbene, nell’attuale geografia cristiana, l’Europa, con le sue percentuali di appartenenza alle Chiese in caduta libera, è periferica rispetto a un baricentro del Cristianesimo che (di nuovo: centri di potere a parte) si colloca altrove. È dunque richiesta una teologia contestuale europea. Con quali caratteristiche? Ovviamente, per esporle non basterebbe un libro, ma almeno un piccolo elenco si può tentare.
Una teologia europea (anche questo aggettivo va inteso culturalmente, non solo geograficamente) è stabilmente chiamata a confrontarsi con la tradizione critica (anche nei confronti della fede) scaturita dall’Illuminismo: essa non può tornare indietro, con la scusa che la “ragione occidentale” è solo una delle opzioni possibili. Da Giustino martire fino ad Hans Küng, il confronto con la ragione critica e tendenzialmente scettica è, per una cultura di matrice europea, essenziale.
Una teologia europea non può rinunciare a una teoria del pluralismo. Si osserverà, giustamente, che ce ne sono anche troppe, il che significa però che su questo non siamo ancora giunti a maturazione.
Che rapporto sussiste tra pluralismo e verità? La buonanima di Benedetto XVI non disponeva forse delle risposte giuste, ma non aveva torto nel porre la domanda.
Una teologia europea deve superare (nell’etica, ma non solo) un concetto semplicista di “natura”, per pensare la complessità del reale come intreccio tra natura e cultura, con tutte le conseguenze del caso.
Una teologia europea lotta per acquisire una consapevolezza sempre meno primitiva del significato antropologico del genere e cerca di elaborare i terremoti che in questo ambito sono in corso. Non è così dappertutto, nel mondo.
Una teologia europea pensa l’etica in connessione con una teoria dei diritti che si è molto evoluta negli ultimi decenni. Non si tratta di santificare ogni rivendicazione, ma di comprendere che dal conflitto tra diritti si può uscire solo in avanti, non imponendo scorciatoie reazionarie.
Una teologia europea non necessariamente santifica la democrazia di tipo occidentale, ma vive con essa un rapporto di speciale affinità.
L’ultimo punto è il più importante: una teologia nell’Europa secolare deve reimparare dall’a-b-c che senza culto comunitario, senza preghiera quotidiana, senza alfabetizzazione biblica, non si dà, semplicemente, fede cristiana.
Foto © Thaï Ch. Hamelin via Unsplash
Fulvio Ferrario
Professore di Teologia dogmatica presso la Facoltà valdese di teologia di Roma.