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“Conoscere la storia dei detenuti”. Tutelare la salute mentale in carcere

di Massimo Clerici

Massimo Clerici. Professore di Psichiatria (Milano Bicocca) e direttore del Dipartimento di Salute mentale e dipendenze dell’Asst Monza.

Intervista a cura di Delia Cascino (Giornalista freelance) e Titti Vicenti (Giornalista freelance)

«Bisogna conoscere la storia delle persone detenute». Il professor Massimo Clerici, figura illustre della psichiatria italiana, parla senza ombre di pregiudizio dei pazienti ristretti in carcere. Ne ricorda i nomi, gli sguardi smarriti, i casi clinici. Li descrive minuziosamente, snocciolando dati e studi scientifici su diagnosi e dipendenze. Clerici aveva quarant’anni quando è diventato responsabile della Psichiatria penitenziaria a Milano Opera. Adesso insegna all’Università Bicocca, dirige il Dipartimento di Salute mentale e dipendenze (Dsmd) della Azienda socio-sanitaria territoriale Monza e coordina l’équipe di medici psichiatri della Casa circondariale nel capoluogo brianzolo. «È fondamentale tutelare la salute mentale anche nelle carceri», spiega Clerici.

Com’è la situazione rispetto a dieci anni fa, quando furono aboliti gli ospedali psichiatrici giudiziari?

Negli ultimi decenni tanti sono stati i cambiamenti legislativi e sociali dopo l’epocale rivoluzione ideologica di Franco Basaglia, che ha sancito l’inizio di un nuovo corso per la psichiatria italiana. La gestione, esclusivamente in capo al ministero della Giustizia, è stata sostituita da un modello più integrato con il Servizio sanitario nazionale (Ssn), volto a garantire una maggiore qualità e umanizzazione delle cure. Un’altra tappa fondamentale è stata la chiusura degli Opg (Ospedali psichiatrici giudiziari) e l’apertura delle Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems). I Servizi di psichiatria forense (Spf), invece, sono un modello importante a livello di innovazione organizzativa e teorica, che non ha precedenti in Europa e nei Paesi extra-Ue, dove non è stato mai abolito l’Ospedale psichiatrico giudiziario, che continua a essere un luogo detentivo secondo le diverse legislazioni nazionali. Riguardo alla gestione dei Servizi di psichiatria forense infatti l’Europa non ha diramato indirizzi comuni, sebbene nel tempo ci siano stati tentativi di mettere a punto una visione coesa nella tutela e nella cura della salute mentale.

Il modello organizzativo italiano basato sulle Rems rappresenta su tutti un passo avanti verso una maggiore umanizzazione delle cure e una pietra miliare della Sanità, nonostante le criticità dovute soprattutto alla carenza di posti letto e alle lunghe liste di attesa. Il problema però è a monte, perché i servizi sanitari territoriali hanno difficoltà nell’assistere i pazienti molto problematici, anche nell’ottica di un’esigenza relativa al controllo sociale: molti autori di reato, con problemi gravi, sono di conseguenza reclusi nei penitenziari. Alla luce di ciò, il sovraffollamento all’interno delle carceri va letto in una doppia direzione: aumento del disagio e difficoltà nel trovare collocazioni idonee per i pazienti psichiatrici autori di reato sia prima che dopo la detenzione.

Chi gestisce l’assistenza psichiatrica in carcere?

Il sistema di assistenza psichiatrica nelle carceri italiane è eterogeneo, per disponibilità di risorse economiche e umane a livello regionale. Idealmente, i Csm (Centri di salute mentale) dovrebbero essere i principali attori nella gestione del benessere psichico in carcere, garantendo continuità assistenziale e integrazione con i servizi territoriali. Tuttavia, il Sistema sanitario nazionale affida il servizio di assistenza psichiatrica in carcere a psichiatri libero professionisti. La presenza di un’équipe interna stabile, supportata da una rete di servizi territoriali, offrirebbe numerosi vantaggi, come la continuità, la conoscenza approfondita del contesto e il coordinamento con il personale penitenziario.

Dunque è fondamentale investire in risorse umane e finanziarie, che invece mancano in molte zone d’Italia. In linea teorica, il carcere recepisce la cartella clinica del paziente autore di reato con una patologia accertata e, come stabilito dalle indicazioni nazionali, lo fa seguire da un’unità di psichiatria forense. Tuttavia, ciò non sempre avviene. La decisione è in capo alle singole Regioni in materia sanitaria. Gli psichiatri del Csm, invece, possono prendere in carico i pazienti solo al termine dell’esperienza detentiva. Le relazioni mediche sono comunque imprescindibili, affinché il magistrato decida se trasferire il paziente in una struttura sanitaria o mantenere la detenzione, adottando in quel caso il trattamento farmacologico più adeguato. Entro le 72 ore dall’ingresso in carcere, è fondamentale individuare tempestivamente i soggetti a rischio e intervenire in modo adeguato.

Il modello prevede due fasi: la valutazione iniziale (screening) e il percorso di assistenza psichiatrica (monitoraggio) per garantire una presa in carico completa del detenuto. L’individuazione per tempo di un soggetto con attacchi di panico, ad esempio, pur non presentando un rischio immediato per la vita, consente di attivare un percorso terapeutico mirato a ridurne la sofferenza e a prevenire l’insorgenza di ulteriori complicanze. Le visite di controllo, nella seconda fase, cambiano in base alle diverse patologie psichiatriche: se un paziente è ben compensato grazie al trattamento farmacologico, la visita si svolge ogni tre mesi, ma può arrivare a una volta a settimana in caso di rischio suicidario.

È possibile prevenire il rischio suicidario?

Il suicidio risponde a una dinamica molto complessa, che attiene a fattori psicopatologici e sociali, e come tale è difficile da identificare e prevenire. Bisogna valutare i singoli casi. Non tutti i detenuti reagiscono allo stesso modo. Sono soprattutto gli individui più fragili, con una storia di disturbi mentali o altre vulnerabilità, a far fatica ad adattarsi. Il suicidio, nel contesto carcerario, non è solo una reazione alla privazione della libertà, ma spesso un segnale evidente di una condizione di sofferenza preesistente. È fondamentale dunque conoscere la storia delle persone. Secondo la letteratura scientifica, due detenuti su tre sono affetti da disturbi di personalità in comorbilità con altre patologie e uso di sostanze. La sanità territoriale, nonostante la decurtazione dei posti letto nella psichiatria, deve mettere a disposizione del carcere operatori esperti, che possano assistere pazienti autori di reato.

Sebbene adesso si avverta un’urgente richiesta di controllo sociale, sarebbe decisamente più opportuno predisporre una politica volta al reinserimento sociale per le persone detenute. Benché sia difficile basarsi su dati epidemiologici, si nota la rilevanza del problema relativo ai suicidi sempre più frequenti nelle carceri. In questi casi, i fattori di rischio non sono necessariamente legati all’ambiente detentivo, ma anche a condizioni cliniche pregresse, che vanno dal disturbo post traumatico da stress – che può derivare da storie di traumatizzazione e vittimizzazione infantile –, al deficit d’attenzione e all’iperattività.

Qualunque sia la diagnosi, compare in modo puntiforme la violenza, elemento costante che si manifesta sul duplice piano auto ed etero diretto tramite, ad esempio, azioni autolesive. Invece i fattori ambientali più importanti del rischio suicidario sono le condizioni di isolamento, la possibilità di maneggiare utensili e oggetti affilati o comunque potenzialmente pericolosi. La maggior parte dei casi di suicidio si verifica entro poche settimane dall’ingresso in carcere. Dunque i pazienti con patologie e condizioni psichiche gravi e accertate, come depressione, disturbi di personalità e schizofrenia, non dovrebbero essere ristretti in carcere solo per questioni legate al controllo sociale, ma in luoghi di cura più adeguati, tra cui le Rems.

Qual è la differenza tra reparti di articolazione per la salute mentale, Rems e comunità psichiatriche?

Le articolazioni per la salute mentale sono reparti specializzati all’interno degli istituti penitenziari, ma spesso non sono sufficienti nel dare risposta alle diverse necessità. Ad esempio, quando un detenuto manifesta un aggravamento del proprio quadro clinico, viene disposto il trasferimento in una Struttura psichiatrica di diagnosi e cura (Spdc) per effettuare un monitoraggio intensivo con esami diagnostici non disponibili in carcere. Le Rems ospitano invece soggetti con disturbi mentali autori di reato, sottoposti a misure di sicurezza, previa valutazione del magistrato che, in base alla gravità del disturbo e della pericolosità sociale, stabilisce o meno l’accesso a queste strutture. Tuttavia, il sistema delle Rems, dove l’assistenza è finalizzata alla terapia e alla riabilitazione, si trova a fronteggiare diverse criticità, come il sovraffollamento: la forte pressione sociale per il controllo degli autori di reato, spesso percepiti come potenzialmente pericolosi, incide sulla richiesta di posti. Di conseguenza, si registra un aumento delle richieste di ricovero, che non sempre trovano una risposta immediata. È fondamentale dunque che la durata del ricovero nelle Rems non corrisponda alla durata della pena, ma sia strettamente legata alle necessità cliniche del paziente. Le comunità psichiatriche infine ospitano tutti i pazienti con disturbi mentali che necessitano di un percorso riabilitativo, ma possono accogliere anche ex detenuti, previa valutazione medica volta a garantire la sicurezza degli altri pazienti e la serenità del contesto terapeutico.

In che misura nelle carceri e negli istituti penitenziari minorili si ricorre all’uso di psicofarmaci?

La vita priva di stimoli, che alle volte caratterizza l’ambiente carcerario, può indurre a un uso improprio degli psicofarmaci, in particolare le benzodiazepine, spesso ottenuto attraverso scambi con beni o prestazioni. La soluzione non può essere solo repressiva, ma deve prevedere un approccio multidisciplinare, offrendo ai detenuti la possibilità di impiegare il loro tempo in modo costruttivo, tramite laboratori di manifattura e agricoltura. Anche negli istituti penitenziari minorili si registra un aumento dei casi di disagio psichico, in linea con le statistiche sulla popolazione giovanile.

La maggior parte dei ragazzi ha una diagnosi relativa al disturbo borderline, che, insieme al disturbo narcisistico, istrionico e antisociale, rientra nel Cluster B dei disturbi di personalità. Sebbene le esperienze vissute durante l’infanzia, come maltrattamenti, abusi e abbandono possano lasciare profonde cicatrici psicologiche, aumentando la vulnerabilità individuale, il disturbo borderline può manifestarsi anche in assenza di esperienze traumatiche esplicite e presenta comorbilità con i disturbi dell’umore, d’ansia, del comportamento alimentare e soprattutto appunto l’abuso di antidolorifici, alcol e stupefacenti, come gli oppiacei. La concomitanza dei disturbi mentali con l’uso di sostanze moltiplica da 3 a 7 volte il rischio di commettere azioni illecite e avere problemi con la giustizia, benché anche l’ambiente sociale incida sulle tossicodipendenze. Non tutti gli autori di reato però sono affetti da psicopatologie. Dunque, se tutelare la salute mentale anche nelle carceri è un obiettivo che la nostra società debba prefiggersi di raggiungere pienamente, allo stesso modo è impensabile che la medicina psichiatrica assurga a strumento volto a tutelare la sicurezza pubblica e a contenere l’incidenza di azioni criminali.

I DISTURBI di personalità

I disturbi di personalità vengono raggruppati in tre Cluster (insiemi):

Il Cluster A raccoglie i disturbi di personalità paranoide, schizoide e schizotipica.

Il Cluster B comprende il disturbo narcisistico di personalità, il disturbo borderline di personalità, il disturbo istrionico di personalità e il disturbo antisociale.

Nel Cluster C sono raggruppati i disturbi di personalità evitante, dipendente, ossessivo-compulsiva.

Il disturbo borderline di personalità è un disturbo di personalità caratterizzato da intensa instabilità e conflittualità nelle relazioni interpersonali, paura dell’abbandono, disregolazione emotiva, sensazione cronica di vuoto, comportamenti autolesivi e impulsività.

Chi soffre di un disturbo narcisistico di personalità ha la necessità di difendersi da possibili ferite al proprio valore personale spesso utilizzando atteggiamenti espliciti di superiorità, disprezzo, svalutazione e arroganza nei confronti degli altri; nelle relazioni assume un atteggiamento competitivo, agonistico.

Il disturbo istrionico di personalità è un modo disfunzionale di comportarsi, pensare e relazionarsi caratterizzato da un’emotività pervasiva ed eccessiva e dalla costante ricerca di attenzioni, approvazione e sostegno dagli altri mediante comportamenti celatamente o apertamente seduttivi.

Il disturbo antisociale di personalità, chiamato anche sociopatia, è un modo disfunzionale di comportarsi, pensare e relazionarsi caratterizzato da insensibilità per i diritti degli altri e disprezzo per le leggi e le norme sociali.

Ph. Carcere  © Chuttersnap via Unsplash

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Massimo Clerici

Professore di Psichiatria (Milano Bicocca) e direttore del Dipartimento di Salute mentale e dipendenze dell’Asst Monza

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