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Michael Kohlhaas

by Goffredo Fofi

di Goffredo Fofi. Scrittore, critico letterario e cinematografico, giornalista.

Il racconto Michael Kohlhaas di Heinrich von Kleist narra la storia – ispirata da fatti storici – di un commerciante di cavalli tedesco del XVI secolo, Kohlhaas, che si trova a fronteggiare un grave sopruso da parte di un signorotto locale. Kohlhaas, inizialmente un uomo rispettabile e onesto, entra in una spirale di violenza e ribellione, mettendo in discussione l’intero sistema giuridico e le sue fondamenta. Mi dicono che all’ultimo festival di Venezia due film “retrospettivi” hanno entusiasmato chi non li aveva mai visti, Il Mahabharata di Peter Brook (1989) e un poliziesco anni Cinquanta di Fritz Lang, diversissimi tra loro, ma non poi tanto se si pensa all’attrazione per la cultura religiosa e popolare indiana del regista tedesco. Il film di quest’ultimo, Il grande caldo, fu a suo tempo snobbato dalla nostra critica come un normale “giallo” e fummo davvero in pochissimi a entusiasmarcene. Con Luis Buñuel, Lang era il regista da cui mi sentivo più “provocato”, prima delle nouvelles vagues. Del primo, ho amato quasi tutti i film ma in particolare Nazarin (1959), e i lettori di Confronti sono tra quelli che possono meglio capirne il perché; del secondo quasi tutti i film ma mentre la critica italiana esaltava in massa il Lang tedesco, non amava il Lang americano degli anni di esilio, meno spettacolare e apparentemente meno ambizioso. Per i critici francesi dei Cahiers du cinéma e di Positif era invece non meno grande, sia pure all’interno dei “generi” hollywoodiani. È nei film americani che Lang espresse meglio la sua visione del mondo, e mostrò, non gridando, le sue costanti narrative, e con più chiarezza nei primi, Furia (1936) e Sono innocente (1937). Ma poi nella maggior parte degli altri, western compresi. Di che parlavano quei film? Di un brav’uomo, di un onesto cittadino che subisce una grande ingiustizia e vuole vendicarsene diventando spietato nei confronti di chi lo ha perseguitato, in Furia un’intera cittadina del Sud degli Stati Uniti. In Sono innocente, a vendicarsi della società, negli anni della Grande crisi, è una giovane coppia criminale ispirata a quella reale di Bonnie e Clyde – all’anagrafe Bonnie Parker e Clyde Barrow – raccontata più tardi, negli anni Sessanta, da un grande film di Arthur Penn (Gangster StoryBonnie and Clyde) che reagisce alle ingiustizie subite.

Non è difficile, per chi conosce un po’ di classici della letteratura tedesca, pensare come motivo ispiratore di questi film a un grande racconto di Friedrich Schiller (Delinquente per infamia) e a un racconto ancora più esplicito di Heinrich von Kleist (Michael Kohlhaas), che racconta di un piccolo allevatore di cavalli che subisce la prepotenza e l’ingiustizia di un nobile quando attraversa il suo territorio, e che si vendica diventando uno spietato bandito. Storie del genere sono state assai spesso narrate anche dalla letteratura e dal cinema italiani, legate spesso all’occupazione piemontese del nostro Sud dopo l’Unità d’Italia. Quanti “banditi” e quanti “briganti” – ma poche brigantesse, però poco evocate – nella nostra Storia, che hanno lasciato un segno nell’immaginario popolare e ancora vi agiscono.
Non sempre si tratta di un’ingiustizia subita direttamente e che chiede vendetta, si tratta in molti casi di una ingiustizia che si è vista subire, e non sono rare le figure di brave persone, perlopiù giovani, che nella Storia del pianeta sono diventate rivoluzionarie per aver visto subire delle grandi ingiustizie, e non per averle subite direttamente. Si potrebbero citare molti nomi, compreso quello di Ernesto “Che” Guevara di cui in questa rubrica si è già trattato, ma penso al caso estremo di una ragazza, la tedesca Ulrike Meinhof, che vide in viaggio in Israele come venivano trattati i palestinesi e fu mossa da questo alla rivolta contro il Potere, ma nella Germania capitalista, e fondò il gruppo rivoluzionario e spietato della Rote Armee Fraktion, conosciuta in Italia con il nome di Banda Baader- Meinhof. Le pagine delle sue memorie sul suo viaggio in Medio Oriente sono esemplari. Pensavo a tutto questo leggendo del successo veneziano riservato alla proiezione de Il Grande caldo, che è la storia di un poliziotto isolato dai suoi capi perché ha capito il legame esistente tra politici e gangster nel dominio su una città, e la corruzione di una parte della polizia. I criminali sbagliano nel punirlo, facendo saltare la sua macchina dove però non c’è lui ma sua moglie… Ed egli sarà spietato nel combattere il potere cittadino, con l’aiuto di pochi e della ragazza di un gangster a cui quello, scoprendo questo “tradimento”, le getta addosso del caffè bollente sfregiandola – ma la metà del suo volto resterà quella di una bella ragazza… Il suo sacrificio permetterà al protagonista di riportare la giustizia nella città. Nel film… Ho avuto la fortuna di conoscere Fritz Lang e di intervistarlo con amici nella stanza dell’hotel Excelsior in cui, malandato, era a letto assistito da un’infermiera, a un festival di tanti anni fa, quello che fu vinto da Buñuel con Bella di giorno. I due registi che ho più amato, l’autore di Nazarin, che sceglie di seguire il modello di Gesù per le strade del Messico, e l’autore de Il Grande caldo, il cui protagonista solo attraverso il sacrificio di una ragazza perduta può ritornare sulla strada della legge.

Illustrazione © Doriano Strologo

Goffredo Fofi

Goffredo Fofi

Scrittore, critico letterario e cinematografico, giornalista.

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