Home RubricheRibelli Bob Dylan

Bob Dylan

di Goffredo Fofi

di Goffredo Fofi. Scrittore, critico letterario e cinematografico, giornalista.

L’impatto della produzione di Dylan va oltre la scrittura di canzoni e tra i suoi riconoscimenti ci sono numerosi Grammy Awards, un premio Pulitzer (2008) e il premio Nobel per la Letteratura (2016).

Unico cantautore ad avere ottenuto il premio Nobel (nel 2016) per l’alto valore dei testi poetici alla base delle sue canzoni, in sostanza per il connubio tra parole e musica, Robert “Bob” Allen Zimmerman era nato nel 1941  a Duluth, Minnesota, da una comune famiglia ebraica e il cognome con cui è diventato famoso era un omaggio al grande poeta gallese, Dylan Thomas.

Di fatto è anch’egli un grande poeta, anche se i suoi testi fanno tutt’uno con la musica che li sostiene, sono inscindibili da quella. E alcuni sono diventati l’emblema di un’epoca, Blowin’ In The Wind come The Times They Are A-Changin’.

E sì, davvero egli ha cantato tempi nuovi, i tempi di una rivolta giovanile che non fu solo statunitense, e che ha avuto leader convinti e convincenti come in Francia Daniel Cohn-Bendit, in Germania Rudi Dutschke, in Italia Alexander Langer e Guido Viale (e Stefano Benni) e tanti altri; ché tutto il mondo economicamente più saldo fu attraversato da movimenti di rivolta che passavano rapidamente dalla scuola alla società, che coinvolsero il proletariato nelle sue molte facce.

C’è un romanzo di Christiane Rochefort, una scrittrice francese da non dimenticare e che ho ben conosciuto, che si intitola Una rosa per Morrison e narra di un cantautore americano che gira per scuole e osterie incitando con la sua musica alla rivolta di tutta una generazione. Christiane Rochefort lo scrisse nel 1966, due anni prima del Maggio francese.

E sì, una qualche funzione preparatoria della rivolta giovanile la musica l’ha pur avuta, a cominciare dai Beatles e da Jim Morrison e dai nostri “genovesi”, ma Bob Dylan l’ha avuta certamente e internazionalmente più di ogni altro. O altra, come la sua amica Joan Baez.

La si chiamava allora “controcultura” ed era la cultura nuova di una generazione nuova, la stessa che ha dato giovani leader politici, alcuni dei quali, i più decisi e convincenti, furono vittime della reazione del potere: da Patrice Lumumba a Ernesto “Che” Guevara, da Martin Luther King a Malcolm X a tanti altri in tante parti del mondo.

Ebbene sì, guardando a ritroso, di questa Storia continuano a dar ragione – dopo aver contribuito a darle un senso con la loro pratica poetica – più i cantautori che gli stessi storici. Per il potere evocativo del loro canto, per il connubio tra “parole-e-musica” e “società-e-Storia”. “Il pane e le rose” fu un altro slogan famoso, venuto dalle lotte delle operaie degli anni Trenta e risorto nei Sessanta e dopo.

Il più degno accompagnamento musicale per le immagini di quegli anni sono e restano le canzoni, e non tanto quelle dichiaratamente impegnate quanto quelle che proponevano una visione nuova, quella nuova sensibilità che ha trovato proprio in Dylan il suo più convincente cantore.

Dietro il Nobel svedese, non è difficile immaginare la persuasione di giurati che avevano più o meno l’età di Dylan e che erano stati accompagnati nelle loro manifestazioni e nelle loro pause dalla sua musica e dai suoi versi. Fu un Nobel nostalgico, meno “attuale” e meno letterario dei soliti, quello attribuito a Dylan, ma fu assolutamente meritato.

Una cosa che forse non si può dire di un Nobel che lo precedette, cioè quello attribuito al nostro pur bravo Dario Fo che – nonostante la sua originalità e i suoi grandi meriti – forse sarebbe dovuto andare a ben altri grandi uomini di spettacolo – anche se, a onor del vero, anche il Nobel a Dario Fo rappresentò una fuoriuscita da una convenzione tutta e solo letteraria, ché gli altri grandi del teatro prima e dopo di lui erano commediografi e non attori e registi del teatro.

Scrisse un critico amico che Dylan apparve sulla scena del successo, prima marginale e poi mondiale, come una figura in antitesi a quelle idealizzanti del “maschio” americano del suo tempo – non era biondo e ariano, non era particolarmente avvenente, non era un “fusto”, non usciva da un film hollywoodiano, insomma non era un super-maschio, non era il “tipico yankee”, e non era un prodotto da copertina.

Sembrava scegliere il suo ambiente e i suoi referenti tra i giovani marginali piuttosto che tra i giovani “normali”. E cantava la differenza, la marginalità che non vuole diventare come idealizzano la maturità le immagini adulte degli WASP bianchi, ariani e protestanti: maschi tutti ugualmente conformi, femmine tutte ugualmente conformi e soggette alle più rigide delle immagini sociali.

Questa diversità seppe farsi massa conquistando un’intera generazione e più d’una. Internazionalmente, l’accordo tra parole e musica era perfetto, con antecedenti solo nella musica scaturita dalle lotte e dai proletariati di prima (negli Usa, un nome per tutti: quello di Woody Guthrie) e risalente forse, anche inconsciamente, alle canzoni di Béranger nella Francia dell’Ottocento.

E più tardi Al tempo delle ciliegie, la stupenda canzone ancora francese che accompagnò le lotte della Comune e del proletariato di più generazioni. C’è insomma modo e modo di esprimere la speranza in un mondo migliore, protestando contro le disparità e le ingiustizie e le fatiche e gli orrori del tempo presente. Grazie dunque a Bob Dylan per quanto e per come ha saputo cantare le speranze e i sogni di generazioni più solidali delle presenti. Tra rivolta e utopia.

Illustrazione Bob Dylan © Doriano Strologo 

Picture of Goffredo Fofi

Goffredo Fofi

Scrittore, critico letterario e cinematografico, giornalista.

Abbonati ora!

Solo 4 € al mese, tutta Confronti
Novità

Seguici sui social

Articoli correlati

Lascia un commento

Scrivici
Send via WhatsApp