di Adriano Gizzi
Alcuni consigli di lettura utili per farsi un’idea in vista del referendum costituzionale del 4 dicembre.
Politica
di Adriano Gizzi
Riconosce la sconfitta alle amministrative, ma come ricetta propone di mantenere la rotta che per molti è proprio la causa della crisi del Pd.
di Adriano Gizzi
A ottobre gli italiani saranno chiamati a pronunciarsi su un referendum costituzionale di cui molti ignorano i contenuti. Come previsto – e voluto dallo stesso Renzi – l’appuntamento si trasformerà in un plebiscito pro o contro il governo.
In una domenica di ottobre, molto probabilmente il 16, gli elettori italiani verranno separati nettamente in due, neanche fossero le acque del Mar Rosso: da una parte quelli che ritengono Matteo Renzi il più grande statista di tutti i tempi (e la sua riforma costituzionale, approvata il 12 aprile scorso, la soluzione ai problemi del paese) e dall’altra parte coloro che vedono nel premier un ducetto che vuole stravolgere e ridurre a carta straccia «la Costituzione più bella del mondo». Delle due l’una, tertium non datur. Ma probabilmente la maggior parte delle persone andranno alle urne per il referendum costituzionale senza aver letto neanche una riga del ddl Boschi e decideranno cosa votare esclusivamente sulla base delle simpatie o antipatie politiche. Non è un caso se la quasi totalità del Partito democratico è mobilitata a favore, con migliaia di comitati per il Sì, e tutte le forze di opposizione sono schierate per il No.
intervista a Carlo Fusaro (professore ordinario di Diritto pubblico comparato all’Università di Firenze), a cura di Adriano Gizzi
Quali sono a suo giudizio i principali vantaggi di questa riforma costituzionale?
«Questa riforma affronta (e secondo me con ogni probabilità risolve) alcuni dei maggiori problemi della Parte seconda della Costituzione: dei quali in effetti si discute da oltre trent’anni e sull’esistenza dei quali quasi tutti concordano. Si tratta del superamento del bicameralismo fondato su due camere quasi gemelle che fanno le stesse cose e rappresentano tutt’e due i cittadini politicamente organizzati. Il cosiddetto “bicameralismo paritario e indifferenziato”. A dire il vero una differenza c’è: e costituisce un serio problema democratico. Il Senato non è eletto dai cittadini fra i 18 e i 25 anni: quattro milioni. Non è poco. Inoltre la riforma affronta un problema più recente: il rendimento discusso della riforma del titolo V (Rapporti Stato-Autonomie) del 2001. Lo fa chiarendo la preminenza legislativa dello Stato: in compenso porta Regioni e Comuni dentro il nuovo Senato, in Parlamento».
intervista a Gianfranco Pasquino (professore emerito di Scienza politica dell’Università di Bologna)
a cura di Adriano Gizzi
Lei sostiene che la riforma del Senato peggiora l’esistente perché porta a un bicameralismo «sicuramente imperfetto e squilibrato». E, in alternativa, indica come esempio da seguire quello del Bundesrat tedesco. Quali sono gli elementi di questa riforma che non la convincono?
«La riforma del Senato nasce da due motivazioni: 1) accarezzare l’antipolitica riducendo il numero dei parlamentari e le relative nient’affatto ingenti “spese”; 2) togliere al Senato il potere di votare o no la fiducia al governo per ovviare all’inconveniente causato nelle elezioni del febbraio 2013 dalla legge elettorale (una maggioranza chiara alla Camera, frutto del premio di maggioranza, e una situazione di stallo al Senato, ndr). Sono motivazioni occasionali e deteriori che, infatti, non hanno nulla a che vedere con la creazione convinta e pensata di una Camera delle autonomie né con il miglior funzionamento del sistema politico».
Mondo cattolico – o, almeno, una sua parte, quella parte che potremmo definire “conciliare” – spaccato sul voto da dare nel referendum sulle riforme costituzionali sul quale si voterà a ottobre, dato che anche la Camera (il 12 aprile) ha approvato definitivamente quanto già varato dal Senato. Il 21 marzo, infatti, è stato presentato a Roma un “Appello dei Cattolici del No” che invita appunto a respingere – nel referendum – le modifiche alla Costituzione caldamente invece sostenute dal governo Renzi. Il 18 aprile, poi, è stato reso noto un altro e ben diverso Appello, che critica nel merito il precedente e, invocando il rispetto della laicità, ribadisce il rifiuto di motivazioni religiose sia per votare NO che per votare SI’.
Pubblichiamo integralmente i due testi, con le firme che fin qui hanno raggiunto; e gli indirizzi email ai quali chi lo voglia può inviare la propria adesione.
di Simone Maghenzani (docente di Storia moderna, Università di Cambridge)
Il referendum del 23 giugno vedrà il Regno Unito decidere della propria adesione all’Unione europea: non un fatto nuovo nella storia britannica. Già nel 1975 il paese venne chiamato alle urne per approvare la partecipazione al mercato comune europeo, con un referendum indetto dal primo ministro laburista, Harold Wilson. Oggi come allora il dibattito non coinvolge i temi dell’identità europea delle isole britanniche, o il ruolo di Londra sullo scacchiere internazionale. Se nel 1975 la decolonizzazione era fatto ancora recente, e si poteva pensare al Regno Unito come punto originale di intersezione tra la tradizionale “relazione speciale” anglo-americana, il Commonwealth, e l’Europa, oggi l’eredità dell’impero è lontana, e partner commerciali nuovi sono al centro della scena. Tuttavia, le due consultazioni sono assai simili. Se nel 1975 il referendum aveva l’obiettivo di tenere insieme il partito laburista, con una sinistra interna preoccupata che le decisioni di politica industriale sarebbero state prese a Bruxelles e non più a Westminster (tra gli oppositori di allora all’adesione al mercato comune, l’attuale leader del Labour, Jeremy Corbyn), oggi il referendum non ha altra ambizione che quella di David Cameron di mantenere l’unità del partito conservatore.
di Antonio Sciotto (giornalista della redazione Economia e lavoro de “il manifesto”)
Non tutti lavorano meglio al tempo del Jobs act: se da un lato nel primo anno di applicazione della nuova legge si sono registrati nuovi contratti a tempo indeterminato e stabilizzazioni, come sottolinea il governo, dall’altro però si sono moltiplicate le occasioni di precarietà e impoverite le tutele. Un esempio per tutti: il boom dei voucher, una vera e propria esplosione, visto che dai 36 milioni del 2013 si è passati a 115 milioni nel 2015. Questo perché i buoni per il lavoro a chiamata – una sorta di ticket che retribuisce le singole prestazioni – sono stati liberalizzati e quindi trovano ormai le più svariate applicazioni, soprattutto nel terziario.
Le stesse assunzioni a tempo indeterminato – peraltro senza più l’articolo 18 come deterrente contro il licenziamento ingiustificato – sono state incentivate con sgravi molto generosi: 8000 euro per ogni neo-assunto nel 2015, che però scendono a poco più di 3mila per le imprese che attivano un contratto quest’anno. Molti analisti parlano di un “mercato drogato”: finiti gli incentivi (durano tre anni) si teme che potrebbe seguire una valanga di licenziamenti.
Noi rappresentanti di movimenti, associazioni e gruppi del mondo della pace e della nonviolenza siamo preoccupati delle pressioni esercitate sul nostro governo perché assuma un ruolo guida nell’intervento militare in Libia a fianco di altre potenze occidentali. Il Presidente del Consiglio ha detto che “non è in programma una missione militare italiana in Libia”. Ne prendiamo atto. Ma i problemi restano: – il contrasto all’espansione del terrorismo del sedicente Stato islamico; – una minaccia alla sicurezza del nostro paese; – la stabilizzazione della nazione nordafricana. La guerra non è il mezzo adeguato per sconfiggere il terrorismo né tantomeno per portare stabilità alla Libia. Basterebbe guardare alla storia di questi ultimi anni per capire che gli interventi militari non hanno risolto i problemi, li hanno invece aggravati.
di Claudio Paravati
Oggi in Italia possiamo parlare di un «nuovo pluralismo religioso», dovuto in buona parte all’arrivo di comunità differenti, portatrici anche di religioni prima non presenti nel paese. Tra i molti dati del Dossier Statistico Immigrazione 2015, vi sono anche le nuove stime dell’appartenenza religiosa riguardo alla popolazione straniera. Classificare le persone secondo il credo non è un’operazione semplice e sarebbe sbagliato farlo «meccanicamente» sulla base del paese d’origine.
Che siano «ponti di Babele» invece che «torri», di pluralità è comunque necessario parlare oggi forse più che ieri, in un’Italia che faticosamente prende coscienza di essere terra di religioni, al plurale, e non solo di religione, una, santa e universale. Capita che, quando se ne accorga, subito dopo si faccia prendere dal timore di perdere la propria presunta «identità». O almeno c’è chi dice così: persino su importanti e diffuse testate nazionali c’è chi propone lo schema della reciprocità non solo per i diritti, tra cui quello di costruire i luoghi di culto, ma persino per il dialogo tra le religioni.