Anno 1888: il saluto de "La Civiltà cattolica" al monumento di Giordano Bruno - Confronti
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Anno 1888: il saluto de “La Civiltà cattolica” al monumento di Giordano Bruno

by redazione

Sulla rivista dei Gesuiti “La Civiltà Cattolica” è comparso nel 1888 in due puntate (vol. X, pp. 385-395, 658-673) un articolo – meglio sarebbe dire: una invettiva – contro la “Brunomania in Italia” (questo il titolo), che se la prende con la dilagante ammirazione per Giordano Bruno nell’Italia risorgimentale, laica e anticlericale: va ricordato che giusto in quei mesi si va organizzando la posa di un monumento a Giordano Bruno, che sarà portata a compimento l’anno successivo.

Lo scritto, anonimo secondo la consuetudine nella “Civiltà Cattolica” a quell’epoca, dà un’idea della sofferenza (e dell’insofferenza) patita dalla Chiesa cattolica italiana con l’avvento di uno stato laico, retto da una classe dirigente in buona parte appartenente alla massoneria, imbevuta di una cultura razionalista e anticlericale.

Per i gesuiti dell’anno 1888 Giordano Bruno è davvero un concentrato di tutti i mali (naturalmente lussuria compresa), privo di qualsiasi dignità morale e culturale, perché – in fondo – è nient’altro che un piccolo rivoluzionario, non un riformatore religioso degno di un minimo di rispetto (interessante il confronto con Lutero). Perché se c’è un male più devastante degli altri, quello è la rivoluzione (il “veleno celtico”!).

Riprendiamo alcuni passi dell’articolo, animato da un linguaggio sempre sopra le righe, che dà fondo a tutto il repertorio delle espressioni di esecrazione e disprezzo (escluse naturalmente le parolacce).

È un documento di grande interesse, testimone di un’epoca, di una cultura, di una mentalità. Per certi versi, persino spassoso.

Da “La Civiltà Cattolica” 1888, vol. X

La Brunomania in Italia

Il culto verso i grandi uomini, e chiamiamo grandi quelli che resero insigni servizi all’umanità, è uno dei fatti più costanti della storia, perché risponde a un sentimento insito nel cuore degli uomini, di esprimere con atti esterni la loro gratitudine a chi legò il proprio nome ai trionfi del vero, del bello e del buono. A questo sentimento nobile e generoso fa indegno contrasto quello delle sètte odierne, le quali, in odio della religione e per fare oltraggio al Papato, erigono monumenti o decretano onoranze pubbliche e solenni agli oppugnatori più accaniti dell’una e ai nemici più implacabili dell’altra. Quasi che l’irreligione fosse diventata vanto di elevatissimo ingegno, e merito soprammodo grande l’osteggiare un’istituzione che, per la sua divina origine e pei beni senza numero arrecati all’umanità, fu mai sempre riguardata come la maggiore e più bella gloria che vanti l’Italia. Siffatto abuso d’indebiti onori e di scandalose apoteosi abbiamo chiamato indegno contrasto; ma avremmo potuto anche chiamarlo un mostruoso attentato contro il più grande dei beni dell’umano consorzio, che è la civiltà. Qual cosa infatti più funesta alla civiltà di un popolo, che il pervertimento morale di questo popolo, e allo stesso tempo qual cosa più efficace a corrompere il senso morale, che il culto pubblicamente reso all’errore e al vizio? (…)

Per fermo prima della rivoluzione francese non s’era peranco ancora veduto lo spettacolo, al quale assistiamo noi al presente. L’Italia unificata dalle sètte, e quindi essenzialmente rivoluzionaria, porta nel suo nuovo organamento e nella sua nuova vita il veleno celtico, succhiato dal seno di colei che fu ed è tuttora la madre di tutte le rivoluzioni moderne, l’esemplare di tutte le nazioni informate dallo spirito d’indomabile ribellione contro Iddio, racchiuso nei principii dell’89. Fu appunto la Francia della rivoluzione quella che, prima tra le nazioni moderne, inaugurò lo scandaloso spettacolo delle apoteosi decretate a uomini che lasciarono al mondo un nome infame per atroci delitti e tracce indelebili di sangue; quella che ai corifei di quell’immane sovvertimento di principii e d’istituzioni tributò onoranze straordinarie; quella che a codesti mostri trasformati in eroi rizzò statue, innalzò monumenti e i loro nomi, per tanti titoli esecrabili, appose alle vie, alle piazze e ai pubblici istituti, cancellandone gli antichi con isfregio del buon senso, della morale, della religione e della storia. Non deve dunque recar meraviglia, che l’Italia novella, uscita dai fianchi della rivoluzione francese, ne segua gli esempi anche nel culto che si vuol rendere oggi a uomini che sono l’incarnazione dell’apostasia, e non ebbero altro merito che quello di essersi più audacemente ribellati alla verità: sperare il contrario sarebbe un disconoscere i biechi istinti che la figlia ereditò dalla madre. (…)

Ma v’ha di peggio ancora; perché, se non ci inganniamo, siffatta audacia va oggi fino all’impudenza. Ed impudenza è senza fallo quella di volere in Roma, comeché questa sia stata per violenza tolta al Sovrano Pontefice, rizzato un monumento a Giordano Bruno in quel Campo di Fiori dove, com’è comune opinione, morì abbruciato sul rogo il frate scandaloso e ribelle. Un monumento a Giordano Bruno! Ma gl’italiani rinsaviti, quando, se a Dio piacerà, saranno francati dal giogo della massoneria e dalla tirannide rivoluzionaria, dureranno fatica a credere che sia stata possibile una violazione così manifesta di tutte le leggi del pudore, del senso morale e della pubblica onestà. Che la Francia del 93 avesse innalzato un altare alla ragione simboleggiata in una prostituta, lo comprendono tanti: erano giorni di parossismo, di satanismo; e la Francia, che per indole è trascendente ed eccessiva, in quel periodo di deliramenti, abbandonossi anche a questo eccesso, di inchinarsi davanti a un idolo più abbominevole di quello adorato già dal popolo giudaico; ma fu breve la durata di questa infamia, e lo stesso Robespierre stimò che fosse tempo di ristaurare in Francia il culto dell’Ente Supremo. Ma che in Italia, dove la rivoluzione s’inaugurò senza scuotere i principii fondamentali della vita sociale, e a nome dell’indipendenza e della libertà e con promessa, che sarebbero state rispettate l’eterne ragioni di Dio e della Chiesa, (…) si sia venuto al punto che ai più forsennati tra i liberi pensatori è data libera balìa di proclamare l’apostata di Nola precursore di civiltà e di farne quasi un semidio degno di avere un monumento in Roma, onore che i suoi nuovi padroni non hanno decretato a niuno dei più grandi e illustri pensatori; cotesto tornerebbe inesplicabile, se non si sapesse che la rivoluzione italiana, se ha mutato pelo non ha cambiato natura, vogliamo dire che, sotto le parvenze della sua moderazione e di una affettata tolleranza, nasconde il suo maligno talento di levare al cielo coloro che colla loro vita a coi loro libri avvantaggiarono o precorsero la rivoluzione. (…)

Ora Giordano Bruno ebbe in grado eminente i vizii e le mostruosità della rivoluzione; non gli mancò un solo dei biechi istinti di essa; e cosa ancor più singolare, parve un rivoluzionario moderno in pieno secolo XVI. Egli fu dunque un vero precursore della rivoluzione, e sotto questo rispetto può dirsi men seguace di Lutero che di Voltaire, più giacobino che eretico; più propenso verso le dottrine del libro pensiero che della Riforma. (…)

La rivoluzione è innanzitutto lercia; dov’ella trionfa è il malcostume che trionfa, è la impudicizia che passeggia impunita per le pubbliche vie. Ora Giordano Bruno fu quanto si può essere libertino. (…) Profugo d’Italia e disertore del chiostro, s’abbandonò al reprobo senso sino a invidiare Salomone, pel gran numero che quel disgraziato re ebbe di concubine, ed a perdere ogni senso di naturale pudore nell’elogiare le donne inglesi, per le quali andava pazzo, com’egli narra: (…) “graziose, gentili, pastose, morbide, giovani, belle, delicate, biondi capelli (…) labbra succhiose” (…)

La rivoluzione è intollerante, illiberale, aggressiva. (…) Or chi più intollerante, illiberale, aggressivo di questo libero pensatore che nella sua Cena delle Ceneri e nell’Antiprologo del Candelaio regalava a coloro che dissentivano dalle sue idee o si permettevano di opinare differentemente da lui, gli epiteti più ingiuriosi? (…) E odano i nostri lettori che cosa scrive attorno ad alcuni eretici, i quali pensavano a loro modo. “non solo si può essere loro giuridicamente molesti, ma ancora si deve stimare gran sacrificio agli dei e beneficio al mondo di perseguitarli, ammazzarli e spegnerli dalla terra”. (…)

Il Bruno non convertì un solo alle dottrine di cui si fece banditore. Suscitò contradditori, destò dispute interminabili, si attirò persecuzioni ben meritate; mise in iscompiglio scuole, università, accademie, ma per non raccogliere altro frutto che disistima, odii e dispregi. Chi oserebe oggi, in tanto fanatismo brunoniano, paragonare l’apostata di Nola coll’apostata di Wittemberg? Che cosa diventa il Bruno messo alla stregua di Lutero? Costui almeno venne a capo di accendere in Europa quel vasto incendio che dura ancora e di dare il suo nome a una rivoluzione religiosa, dal seno della quale venne fuori quel sovvertimento morale e politico che è il carattere vero della Riforma. Il Nolano sebbene per istinto, sovvertitore del vero, del bello, del buono, non approdò che a lasciare il tempo che aveva trovato. (…)

I sicofanti degli atenei italiani, dal Marselli in quel di Torino allo Schiattarelli in quel di Palermo, han voluto gabellarcelo come grande filosofo. Sfidiamo tutti questi signori a volerci dire quale fu la specie della filosofia brunoniana. Il Nolano fu panteista, fu ateista, fu deista, fu sensista, fu materialista, fu spiritualista? A rigor di termini, non fu nulla di tutto questo, e fu tutto questo (…)

La Brunomania, della quale è oggi invasa non l’Italia, che per due buoni terzi non sa chi sia Giordano Bruno, ma quella parte della gioventù italiana sulla quale sono fondate le migliori speranze della patria, questa Brunomania è un fenomeno passeggero, ovvero un sintomo che accenna a uno stato di cose, per cui siano da temere per l’avvenire mali peggiori dei presenti? (…) Una cosa però è per noi evidente (…) ed è che la Brunomania è la prova più palpabile della decadenza intellettuale e morale della nostra gioventù studiosa. (…)

Un’ultima parola. Se non ci fosse altro, basterebbe la statua scolpita da Ettore Ferrari, per innalzarla in Campo di Fiori, a qualificare tutta questa agitazione bruniana, come una vera monomania. Che! Scolpire in cocolla da frate chi più volte ripudiò questa cocolla, e più volte rindossolla per far la commedia, quando gli tornava utile che il mondo credesse lui, proprio lui, sozzo di vizii e maestro di errori, un buon religioso! Ahimè! Anche l’arte s’è fatta complice della massoneria, ma per trarne emolumenti e favori, non già per attingerne ispirazioni; chè dove la massoneria regna e governa, l’ispirazione cede il posto all’adulazione, ed essa che dal grande Alighieri fu chiamata nipote di Dio, diventa ancella avvilita di tenebrosa sètta!

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