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by redazione

Scuola e religioni nell’Europa unita (1957-2017)

recensione a cura di Bruno Liverani

Titolo e sottotitolo di questa recensione appartengono al libro di Flavio Pajer, con prefazione di Luciano Pazzaglia (ELS La Scuola – Morcelliana, Pagine 238, Euro 18,50). È un libro di grande utilità per l’ampia informazione che offre sull’evoluzione complicata che ha subito in Europa (e dintorni) la problematica dell’insegnamento religioso nella scuola pubblica, da un punto di vista culturale, politico e istituzionale. Meritano di essere segnalate tre appendici: una cronologia essenziale, uno schema dei tre paradigmi dell’insegnamento religioso in Europa; soprattutto il lessico minimo dei concetti principali, molto puntuale e significativo della concezione dell’Autore (si veda in particolare la voce “Laicità”).

Flavio Pajer è una riconosciuta autorità in materia, sul piano sia accademico (professore emerito di pedagogia e didattica religiosa presso l’Institut Catholique de Paris e la Facoltà di Scienze dell’educazione dell’UPS di Roma) che istituzionale a livello internazionale (presidente fra il 2002 e il 2006 del Forum europeo dell’insegnamento religioso nella scuole pubbliche). Nella nota 2 a pagina 23 si può leggere un’ampia autopresentazione.

Come chiarisce il sottotitolo, l’arco temporale abbracciato da Pajer è quello dell’Europa unita: dalla fondazione nel 1957 a oggi, passando per l’abbattimento del Muro di Berlino. Oggetto di questa ricostruzione storico-analitica sono i rapporti tra l’insegnamento religioso e i diversi sistemi scolastici europei come si sono evoluti in mezzo secolo, cercando di comprendere le scelte culturali, via via mutate nel corso degli anni, dei protagonisti coinvolti: chiese, governi, associazioni, istituzioni accademiche, addetti ai lavori (pedagoghi, giuristi, teologi…), e così via.

In quest’arco di tempo e di spazio geo-politico, l’autore identifica tre fasi attraverso le quali è passato l’insegnamento religioso:

  • gli anni che, almeno in campo cattolico, hanno al centro l’evento del Concilio Vaticano Secondo e immediatamente successivi (c’è di mezzo il 68!), durante i quali l’insegnamento religioso si è “decatechizzato”;
  • il periodo tra gli anni ’70 e la caduta del Muro di Berlino, durante il quale l’insegnamento religioso ha attraversato un processo di “deconfessionalizzazione”, alla ricerca di uno statuto come insegnamento curricolare (“scolarizzazione”);
  • gli ultimi anni, quando l’insegnamento religioso è andato incorporando una pluralità di visioni del mondo religiose, ma anche non religiose.

È una periodizzazione non rigida, che non ignora (anzi, documenta) le diverse velocità di evoluzione nei vari paesi, né trascura le differenze geografiche e istituzionali, ma aiuta a cogliere linee di sviluppo condivise in un contesto geo-politico parzialmente omogeneo. Al di là delle differenze locali e temporali, si possono “scorgere alcuni tratti salienti di una comune, anche se non sincronica, evoluzione del rapporti scuola-religione avvenuta in questi ultimi decenni. Fenomeni comuni a tutta l’Europa come quello della secolarizzazione e della post-secolarizzazione, o processi comuni come quello dell’innovazione scolastica e universitaria, permettono oggi di parlare di una storia europea della laicità, e di una storia europea della scuola” (p. 16, Introduzione).

Il primo capitolo, rispondente alla prima fase sopra indicata, porta il titolo: “Dalla catechesi scolastica all’animazione culturale” (pp. 25 ss.). “Quella degli anni Cinquanta-Sessanta è una società europea in piena mutazione demografica, culturale ed etica, investita dalla secolarizzazione ‘post-cristiana’ e insieme da fermenti neo-religiosi fino ad allora scon osciuti al di qua dell’Atlantico. (…) Una società politicamente laica che riconosce tra i massimi diritti dell’uomo anche il diritto alla libertà religiosa, e perciò l’implicito diritto all’alfabetizzazione sul fatto religioso attraverso la scuola pubblica” (p. 26). Il corsivo nella citazione è mio: mi pare un po’ audace dedurre dall’indiscutibile diritto alla libertà religiosa il corollario del diritto all’insegnamento religioso nella scuola pubblica: a meno che non si convenga che al “fatto religioso” vadano riconosciute dimensioni travalicanti le appartenenze (a chiese, comunità, ecc. particolari) e le convinzioni personali.

In sintesi, questa prima fase “coincide – specie in area cattolica ma non solo – con gli anni del preconcilio e del postconcilio, e che si caratterizza per il superamento di un certo garantismo dottrinale tipico della tradizione post-tridentina, e per l’accentuarsi della distinzione tra istruzione religiosa nella scuola pubblica e iniziazione confessionale propriamente detta”. Distinzione infiltratasi dapprima “informalmente, de facto, nella pratica didattica in forza del crescente processo di secolarizzazione della società civile, e successivamente ratificata e adottata anche dalle autorità istituzionali. (…) Potremmo chiamare questa fase il tempo della de-catechizzazione dell’insegnamento religioso” (p. 17, Introduzione).

Nella parte finale di questa fase, l’insegnamento della religione, al pari degli altri istituti connessi con il mondo della scuola, è stato travolto dalle tempeste sociali e culturali degli anni ’60 (’68 e dintorni!), che hanno investito in primis il mondo della scuola. Tutto ciò si riflette anche nel lessico dell’educazione: “entrano in circuito parole fino allora inusuali: educazione permanente, descolarizzazione, dinamica di gruppo, democratizzazione dell’educazione…” (p. 42). Grande ruolo hanno avuto proprio in quell’epoca gli sviluppi delle scienze umane” (pedagogia, psicologia, sociologia, antropologia culturale…), di cui il libro cita e analizza gli aspetti più influenti in questa problematica.

Né vanno dimenticati – e l’Autore non li dimentica – gli impulsi innovativi provenienti dal Concilio Vaticano secondo. Per esempio, proprio nel campo dell’istruzione religiosa, più propriamente della catechesi, quelli di noi che hanno una certa età e che hanno vissuto con partecipazione quell’epoca, ricordano l’impatto che ha avuto la pubblicazione del Catechismo Olandese, uno dei frutti più avanzati dell’impulso innovatore impresso dal Concilio, tradotto anche in Italiano ma diffuso con singolare circospezione (accompagnato dalla Dichiarazione di una commissione cardinalizia e da un corposo fascicolo-guida), pur essendo opera ufficiale di una chiesa nazionale.

In breve: questa prima fase, che si affaccia sugli anni ’70, vede affacciarsi un nuovo paradigma che “in reazione alla predominante centralità della dottrina oppone ora la centralità della persona, la sua esperienza, il suo contesto, la sua biografia. È il trionfo dell’approccio ermeneutico, dell’insegnamento centrato sui problemi, del recupero della soggettività e dell’emotività” (p. 47).

Passiamo alla seconda fase, denominata come “Il tempo della scolarizzazione“ (pagine 54 e segg.). Si avverte l’insufficienza, la precarietà dell’insegnamento religioso destrutturato e ridotto ad animazione culturale. “L’insegnamento religioso sente il bisogno di ri-legittimarsi sia come disciplina curricolare in seno a sistemi educativi statali che, mediante riforme strutturali, stanno diventando anche organizzativamente più rigorosi ed esigenti, sia come offerta educativa ripensata qualitativamente di fronte a un’opinione pubblica sempre più secolarizzata e a generazioni di giovani largamente disincantati dall’universo religioso tradizionale” (p. 17, Introduzione). In questo contesto l’istruzione religiosa, premuta dalle aree contigue dell’educazione interculturale, dell’educazione alla cittadinanza e ai diritti umani, pur tentando di offrire un proprio apporto di conoscenza e di valori, lo fa “a costo di una de-confessionalizzazione delle finalità educative se non anche dei contenuti culturali originari” (ivi).

La questione religiosa in questa fase (anni ’70-’80) non emerge ancora tra i temi con cui si va misurando prioritariamente la società europea in evoluzione (efficienza, innovazione, professionalità…), e tuttavia si affaccia l’esigenza di costruire “una base di valori etici comuni” per cui “l’autorità scolastica dei ministeri dell’educazione, sulla scorta dei più recenti studi in scienze della religione e dell’etica, comincerà a guardare all’istruzione religiosa scolastica non più solo come un compito da delegare alle Chiese a favore dei soli alunni credenti, ma come a una nuova possibile area di saperi disciplinari, relativamente autonomi, da offrire in termini di conoscenza, di ricerca, di competenza critica alla totalità degli alunni” (p. 56).

Su questo orizzonte, l’istruzione religiosa fornita nella scuola pubblica non ha altro compito che quello di “maturare nell’alunno la capacità di orientarsi adeguatamente in materia religiosa; ma non necessariamente a favore di una data opzione religiosa o di un credo confessionale (…) Con l’intensificarsi della secolarizzazione, parte sempre più consistente della popolazione scolastica non entra più in classe con un minimo di retroterra religioso, ed è la ragione per cui, a cominciare dal Nord Europa e verso la fine del millennio, anche l’ateismo entra nei programmi dell’area religiosa come fenomeno da conoscere e analizzare al pari del fenomeno religioso” (p. 58).

Questi sviluppi non potevano non toccare i regimi concordatari vigenti nei paesi a prevalente tradizione cattolica. Come è noto, nessuno si è azzardato a metterli radicalmente in questione. Tuttavia gli sviluppi intervenuti in questo campo hanno imposto delle revisioni, che in qualche modo dovevano rispondere ai cambiamenti imposti dai processi di secolarizzazione. Nelle rinegoziazioni intervenute in questa fase (Spagna 1979, Italia 1984, Malta 1989), l’insegnamento della religione (cattolica, naturalmente) viene legittimato “non più in termini di educazione catechistica e nemmeno di socializzazione religiosa, bensì sulla base del riconoscimento civile del diritto fondamentale all’educazione religiosa (Spagna), del riconoscimento del valore culturale e umanizzante della tradizione cattolica (Italia), del riconoscimento del valore formativo dell’istruzione religiosa nel processo di maturazione globale della persona (Malta), e in considerazione che i principi del cattolicesimo, in ciascuno di questi paesi, fanno parte del patrimonio storico, culturale e sociale dei rispettivi popoli. Anche Austria e Portogallo, con le ultime riforme scolastiche, hanno rifondato sostanzialmente il profilo giuridico del loro insegnamento in base alla legislazione unilaterale statale” (p. 79).

Se, sia pure obtorto collo, nei paesi pluralistici dell’Europa occidentale la Chiesa cattolica ha in qualche modo scelto di ridisegnare la figura concordataria dell’insegnamento religioso nel senso della de-catechizzazione e della scolarizzazione della materia, nei paesi post-comunisti “ne ha invece confermato un profilo para-catechistico non appena si sono riaperte, nel corso degli anni ’90, le condizioni favorevoli per ristabilire i normali rapporti diplomatici e collaborativi tra Stati e Chiese (…) Anche altre Chiese cristiane si sono allineate sul medesimo standard di una sostanziale ‘complicità’ o intercambiabilità tra catechesi intraecclesiale e insegnamento scolastico, accettando, anzi postulando un proprio insegnamento confessionale” (p. 81).

A questo punto è inevitabile chiedersi come si è risposto alla domanda cruciale in questa fase della “scolarizzazione”: “Se la ‘religione’ aspira a legittimarsi nella scuola come vera e propria disciplina di studio, qual è la natura del sapere proposto nei corsi di religione? Su quali fondamenti scientifici possono accreditare la loro plausibilità culturale tali corsi?”(p. 95).

L’Autore identifica quattro tipologie, che menzioniamo solo per titoli:

  • un’istruzione religiosa basata sulla fede e la teologia di una Chiesa;
  • un’istruzione religiosa che associa alla teologia l’utilizzo delle discipline empiriche che trattano il fenomeno religioso;
  • l’assunzione, come base esclusiva, della razionalità avalutativa delle scienze della religione (la teologia essendo considerata come un discorso tra gli altri)
  • un approccio interdisciplinare: il fatto religioso viene letto in base ai criteri epistemologici delle varie scienze, in particolare di quelle umanistiche (questo approccio è stato formalizzato dal sistema francese, “dove la tradizione della laicità e le leggi della separazione non consentono alla scuola pubblica di istituire una disciplina autonoma di istruzione religiosa” (p. 102).

Giungiamo così alla terza fase, con la quale siamo oggi alle prese: “La scuola di religione nel turbine della diversità” (pp. 105 ss.). La diversità, appunto: da un quarto di secolo almeno siamo costretti a convivere con una crescente molteplicità di fedi, culture, appartenenze nelle quali la dimensione religiosa assume un’evidenza e un peso assolutamente inediti rispetto al recente passato. È svanita l’illusione nella quale molti di noi, convinti della non reversibilità dei processi di secolarizzazione, si cullavano sognando un mondo (almeno quello europeo-occidentale) conquistato ad una laicità finalmente radicata e tranquillamente riconosciuta nel pensiero come nella pratica da credenti e non credenti.

“Ormai è il tempo in cui non solo le ‘altre’ visioni religiose del mondo subentrano come oggetto di studio curricolare, ma le stesse visioni non religiose, secolari, agnostiche sono affrontate come naturale seconda faccia della stessa medaglia. Ed è il tempo in cui la religione, ogni religione storica, in quanto dimensione trasversale immancabile delle culture umane , vien fatta entrare in quel frantoio obbligato qual è diventati il laboratorio scolastico dell’inter-cultura. Qui il dato religioso non è estromesso, anzi è invocato democraticamente come parte integrante della cultura. Con soddisfatta approvazione di chi riconosce un preciso ruolo culturale all’universale patrimonio simbolico-religioso ed auspica che tale ruolo venga correttamente valorizzato nella scuola di tutti, ma forse con disappunto e sconcerto di chi, da credente o da ateo – in ambito di costume democratico, di libertà religiosa, di educazione religiosa, di distinzione di competenze educative – preferisce rimanere gelosamente ancorato a concezioni pregresse della vita, della scuola, della stessa vita religiosa” (p. 18, Introduzione).

Per l’Autore la scuola europea d’oggi, con tutti i suoi limiti e i suoi molteplici travagli, “si rivela un laboratorio imprescindibile dell’apprendimento multiculturale e, nei casi migliori, interculturale: uno spazio dove imparare le ragioni della propria identità e insieme le ragioni dell’altrui identità (…) Ma quale scuola è in grado di assumere responsabilmente questo compito? Non più la scuola del vecchio stampo repubblicano o statalista, che, ossessionata dal mito della neutralità, stendeva un velo di silenzio (tutt’altro che neutrale!) sul religioso; ma nemmeno la scuola del multiculturalismo primario, ossessionata dal culto dell’identità individuale, che, secondo lo stile dell’apartheid, separa o lascia divisi i gruppi di alunni in base alle loro appartenenze e convinzioni (…). Quel compito lo potrà assumere una scuola:

  • che accetti realisticamente la pluralità culturale e religiosa come una condizione oggi irreversibile;
  • che miri a costruire negli alunni una coscienza comune e solidale di fronte ai grandi problemi dell’umanità e che riconosca allo stesso tempo la legittima pluralità delle personali appartenenze simboliche (religiose, spirituali, filosofiche), al punto da farne una componente imprescindibile del processo di integrazione civile in una comunità di vita e di valori democratici condivisi” (pp. 186-87)

E le Chiese? Se è vero che “la trasmissione del patrimonio religioso mediante le scuola, in Europa, è alla ricerca di un nuovo paradigma”, allora le Chiese “devono ripensare i fondamentali del discorso pedagogico-religioso, perché sono fin troppo evidenti ormai i segni della fine di un modello di trasmissione religiosa, mentre non è affatto morto in molti giovani l’interesse per la religione, né si è estinta la sete di valori nuovi” (p. 187).

È un orizzonte largamente condivisibile, almeno per chi scrive, anche se proveniente da un’esperienza di militanza anticoncordataria forse un po’ schematica, “di vecchio stampo repubblicano o statalista”, come scrive l’Autore. Eppure di quell’impostazione, se è giusto rilevarne i limiti e doveroso allargarne gli orizzonti, rimane irrinunciabile l’aspirazione a una laicità giusta, rigorosa e trasparente, tra l’altro condizione necessaria per tradurre in pratica, nella realtà delle nostre società, quel compito che l’Autore affida alla scuola del futuro, alla scuola dell’epoca della diversità (vedi sopra, la citazione dalle pp. 186-87). In altre parole: come è possibile realizzare quel tipo di insegnamento, non confessionale e garante del rispetto, anzi del riconoscimento e della valorizzazione delle pluralità, se gli ordinamenti in vigore assegnano, attraverso un trattato concordatario, a un soggetto particolare la gestione e l’assegnazione del personale docente? È il caso dell’Italia, come è noto. Un caso, purtroppo disperato: sappiamo bene che il superamento del regime concordatario in Italia non è, almeno per il momento, nell’ordine della realtà politico-istituzionale. La facoltà di disertare l’ora di religione è una piccola, miserabile concessione, che non lenisce il vulnus inferto a una democrazia autenticamente pluralista, popolata da cittadini uguali in tutto. Per tacere, poi, dei corposi interessi materiali implicati (il sostegno economico a una parte cospicua del clero): con buona pace del nobile orizzonte tracciato da Pajer.

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