di Mario Campli
Europa non è una “espressione geografica”. Europa è storie, culture, popoli, appartenenze: al plurale e plurali. Neppure è una “unità naturale”: antropologicamente è un miscuglio di razze, e l’uomo europeo rappresenta una unità piuttosto sociale che razziale.
L’Europa è il risultato di una storia della libertà di uomini concreti. Dunque, una vicenda aperta soprattutto per la sua fisionomia storico-politica. Questa mutevolezza ha finito con l’incidere sulla sua identità, come forma di civiltà. Una sorta di abito civile, giuridico, culturale, estetico, spirituale. L’Europa si è pensata come “individualità storico-morale” (R. Prodi, “Postfazione” a Europa laica e puzzle religioso, 2005).
Il “Preambolo” del Trattato sull’Unione europea afferma che gli Stati membri si ispirano “alle eredità culturali, religiose e umanistiche dell’Europa” (…). Questo Preambolo ha suscitato contrasti. A noi appare invece condivisibile: su queste basi, le generazioni di europei, ogni giorno, possono e devono costruire l’edificio della democrazia e dello Stato di diritto, includendo e mai escludendo.
Ispirarsi a “eredita” culturali molteplici e diversificate comporta il rispetto e il riconoscimento reciproco. Essere soggetto di cultura è componente essenziale della dignità umana. Anche sostituirla, superarla con un’altra forma di cultura è un riconoscerla. Assumendosi il carico di tenere insieme delle alterità. Per includere e non escludere. Chiamiamo “cultura umana” ogni configurazione, sociale e storica, di inclusione. È a questa visione che l’Europa appartiene. A questa Europa noi apparteniamo. L’Europa che vogliamo.
Le religioni rientrano in parte nell’ambito delle culture, e in parte ne sono distinte. E a loro volta, contaminandosi con altre espressioni della ricerca intellettuale degli uomini e delle donne (arte, letteratura, poesia, filosofia, scienza, tecnologia…) possono dare luogo a nuove culture. Le religioni costituiscono, dunque, una realtà composita, culturale e trans-culturale, molteplice e plurale. Nella storia dell’Europa sono state anche causa di conflitti. Il libero riferimento a eredità religiose molteplici e diversificate comporta, quindi, il rispetto di esse e della loro molteplicità, e comunque la libertà di assumerle o meno come eredità.
L’umanesimo è innanzitutto empatia con l’umanità: ne assume i limiti, le speranze, i sogni, le realizzazioni, le sconfitte, le tragedie.
La tradizione umanistica si basa – prima di ogni elaborazione filosofica e letteraria – su questo difficile equilibrio della simultanea consapevolezza della grandezza e dei limiti dell’uomo. Grandezza e limite appartengono inscindibilmente all’essenza dell’umanesimo europeo. L’assolutizzazione di una sola componente apre la strada ai fondamentalismi come alle banalizzazioni. Nell’Europa che vogliamo, noi rigettiamo entrambe le derive. Nel dibattito quotidiano – spesso sbrigativo, approssimativo e distorsivo – la “ispirazione” evocata nel Trattato viene sintetizzata con il termine “valori”. Una parola che, lungi dall’essere includente come vorrebbe, rischia di essere respingente. Come un pugno nello stomaco o una mano che tappa la bocca e spegne il pensiero.
Scrive uno dei maestri della sociologia italiana, Franco Ferrarotti: “Una società dotata di un retroterra culturale empirico-pragmatico, molto sensibile alla transazione commerciale e in genere alle negoziazioni, al bargaining, come metodo per raggiungere, attraverso interstiziali aggiustamenti, decisioni politiche e sociali importanti, ma anche quelle non decisive, come l’apertura di un’autostrada o lo smaltimento della spazzatura, sembra da qualche tempo ossessionata dai ‘Valori’. ‘Valori’ è una parola equivoca. Andrebbe accuratamente evitata oppure decifrata ed espressa nelle sue valenze ogniqualvolta venga usata. La tendenza a eternizzare i propri valori contro valori degli altri appare invincibile. Di fatto altro non è che la proiezione di sé sugli altri e contro gli altri: per difesa e per offesa” (La religione dissacrante, EDB, 2013).
Consapevoli di questo rischio, chiariamo subito che “valore” per noi è sinonimo di consapevolezza e responsabilità, esercitate nell’appartenenza a Europa. Queste tre parole (consapevolezza, responsabilità, appartenenza) evocano immediatamente la presenza dell’altro da me, l’incontro con valori ed eredità molteplici: con altre consapevolezze, responsabilità, appartenenze. Ciò obbliga alla consapevolezza dei limiti, dunque della relatività dei rispettivi valori e appartenenze. Questo è Europa. Questo è, in nuce, identità europea. Nessuna resa ad ogni vento o avventura (culturale, ideologica, religiosa). È al contrario l’unico terreno ricco di eredità e memoria, fertile di progettualità.
Cosa significa, dunque, essere europei? Europa può rifarsi a una propria specifica identità culturale? Anche il concetto di “modernità” rinvia allo sviluppo di “modernità multiple”. La sintesi di “Europa come luogo” ed “Europa come contenuto” ha suggerito agli storici e agli antropologi un approccio alla identità europea come “secondarietà culturale” (Rémi Brague), che spinge e sostanzia una identità impastata di “unità attraverso la diversità”. Dunque: cosa e chi abbiamo ereditato? Abbiamo ereditato la complessità. Abbiamo ricevuto in affidamento la molteplicità. In questo terreno abbiamo radicato la libertà e le libertà, specchio delle nostre alterità.
Tutto ciò significa Laicità e Democrazia; primato della Legge; limite come scelta consapevole. Riprendiamo, facendole nostre, le suggestioni di due maestri europei, un sommo filosofo e un maestro di storia:
- “La finitezza geografica della nostra terra impone ai suoi abitanti un principio di ospitalità universale, che riconosca all’altro il diritto di non essere trattato come nemico” (Immanuel Kant, 1795).
- “Ma quante Europe esistono? E vero che la storia ne ha abbozzate molte. È alla luce della storia che occorre esaminare le differenze che ne risultano, le opposizioni, le frontiere, le discordanze e procedere con prudenza e per tappe alla realizzazione della unita europea vera, profonda . Ciò che viene dimostrato dalla storia dell’Europa e che i peggiori nemici dell’Europa sono i nazionalismi. Ebbene, qua e là ancora si trovano febbri nazionalistiche e una volta di più, se queste non cedono il posto a sentimenti nazionali e a un amor di patria compatibili con una costruzione europea, una volta di più Europa sarà campo di affrontamenti nazionali e una preda per le avventure politiche e la violenza. Europei, aprite i vostri libri di storia e non ripetete gli errori del passato” (Jacques Le Goff, 1991).
Il Trattato sull’Unione europea delinea schematicamente i caratteri fondamentale della integrazione europea, attraverso le norme che riguardano l’adesione all’Unione, la permanenza nell’Unione e l’uscita dall’Unione.
- L’adesione all’Unione (art. 49) delinea la qualità della membership nei termini di una intesa tra le diverse istituzioni, europee e nazionali. Si evince che l’adesione all’Unione non è un atto burocratico, ma implica l’assunzione di “valori” (non generici, ma precisi: quelli enumerati nell’art.2) da “rispettare” e “promuovere”. Tutte le istituzioni europee sono coinvolte nel processo di adesione di un nuovo Stato; per converso le istituzioni nazionali di ciascuno Stato membro sono corresponsabili, e corresponsabile è anche il popolo dello Stato richiedente attraverso il Parlamento nazionale. Interviene un accordo esplicito tra lo Stato richiedente e gli altri Stati membri, i quali si pronunciano uno per uno, attraverso l’istituzione nazionale che la sua Costituzione indica.
- La permanenza nell’Unione si basa sui seguenti fondamenti : “L’Unione si fonda sui valori del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze. Questi valori sono comuni agli Stati membri in una società caratterizzata dal pluralismo, dalla non discriminazione, dalla tolleranza, dalla giustizia, dalla solidarietà e dalla parità tra donne e uomini” (articolo 2).
- L’uscita dall’Unione, con l’articolo 50, è prevista con un linguaggio che denota la concezione che l’ Unione Europea ha di sé stessa, improntata a scelta, opportunità, libertà: non una prigione, ma neppure una altalenante consorteria di tipo commerciale.
L’intensa liturgia laica, prevista dal Trattato per l’adesione all’Unione, e i principi che fondano la permanenza nell’Unione, non sono il prodotto di una fredda secolarizzazione di fondamenti valoriali presi in prestito da altri mondi, bensì il risultato di dinamiche ereditarie culturali, umanistiche e religiose propriamente europee.
Questa sobria autorappresentazione dell’Europa è poco nota, forse anche per la sua scarsa promozione nelle società nazionali, nei sistemi educativi dei Paesi membri e nel racconto che oggi Europa fa di se stessa. “Noi pensiamo che il problema dell’Europa non sia né economico né politico ma di storytelling. Non abbiamo una buona storia da raccontare e quindi ci incartiamo su problemi politici, economici, burocratici. E invece l’Europa nasce con una storia fantastica: diverse comunità che si sono macellate per secoli decidono, in tempi brevissimi, di diventare un unico organismo, facendo una scelta per la pace straordinaria, che coinvolge i confini, la moneta, la convivenza. È una storia che ha funzionato molto bene per la fondazione. (…) Eppure questa storia dall’imprinting così forte è finita nel disamore…” (Alessandro Baricco).
È urgente invertire questa rotta. All’inizio del progetto di “Costituzione per l’Europa” (successivamente respinto dai due referendum in Francia e in Olanda) i costituenti europei – il 20 giugno del 2003 – avevano depositato queste parole di Tucidide: “La nostra Costituzione si chiama democrazia perché il potere non è nelle mani di pochi, ma dei più”. I germogli da queste immarcescibili radici non sono ancora tutti disponibili. La responsabilità della generazione contemporanea agli albori della costruzione europea è stata rilevante e pesa sui gravi limiti del cammino compiuto nonché sulla pericolosa stasi attuale. Per risalire la china non basta evocare la solidarietà, ma è doveroso e urgente trovare operative convergenze tra gli Stati, i Sistemi Paese, i Popoli d’Europa.
Non è un compito facile. L’attuale modello istituzionale, che affida la responsabilità del monitoraggio del rispetto dello Stato di diritto e del procedimento democratico negli Stati membri alla Commissione europea, non favorisce una iniziativa adeguata, dotata dell’autorevolezza necessaria, per stabilire un equilibrio ragionevole tra la fermezza sulla sostanza dei principi previsti nei Trattati (e accettati con l’adesione) e il rispetto dei sentimenti dei popoli europei (“intensificare la solidarietà tra i loro popoli rispettandone la storia, la cultura e le tradizioni” – Preambolo del TUE). A tal fine sarebbe auspicabile che fosse il Parlamento europeo (“composto dai rappresentanti dei cittadini dell’Unione” – art. 14/2) la istituzione preposta al monitoraggio del “rispetto” dei valori di cui all’art.2 e dell’impegno a “promuoverli”, come afferma l’ art. 49) e alle conseguenti procedure di intervento; anche in considerazione del virtuoso partenariato con “i Parlamenti nazionali (che) contribuiscono attivamente al buon funzionamento dell’Unione” (art. 12).
C’è, dunque, un lavoro enorme da condurre per rivitalizzare l’insieme del pensiero europeo a fondamento della democrazia europea. Alle esigenze – da più parti enunciate – di costruire risposte al “malessere dei nostri sistemi politici, privati di una preziosa risorsa simbolica” (Roberto Esposito) o in quanto calati in “un mondo secolarizzato privo di riserve nascoste” ( Biagio de Giovanni), soltanto una ricerca, di lunga lena, potrà risultare idonea, senza sconti e senza derive, mobilitando “le eredità culturali, religiose ed umanistiche dell’Europa” (Preambolo TUE), tutte in ricerca, con umiltà, pari dignità e uguale determinazione.
***
Una Postilla
di Fausto Tortora
Nel primo dei saggi citati nel testo di Mario Campli compare il volume collettaneo Europa laica e puzzle religioso. Fra i testi ospitati (e datati 2005), oltre alla esauriente introduzione di Margiotta Broglio, mi sembra che il più afferente alle tematiche di questo spazio sia quello di José Casanova dal titolo “Religione, identità laiche e integrazione in Europa”.
Quattro sono i poli tematici in cui si declina l’argomento:
- la Polonia “cattolica”, eccezione religiosa di un’Europa laicizzata;
- la Turchia e la doppia contraddizione: “islamica” rispetto alla Europa, cristiana oltreché laicizzata;
- l’“alterità” rappresentata dagli emigrati all’interno della variegata Europa;
- infine, la grande domanda che si chiede se l’Europa abbia bisogno di una “religione civile” basata sui principi dell’Illuminismo.
L’assunto principale, non solo di Casanova, è che la modernizzazione abbia ridotto la religione a fatto riguardante la sfera privata degli individui, nei confronti delle istituzioni e questo processo si definisce laicizzazione. Salvo il fatto che il complesso, o i complessi, che costituiscono gli apparati di supporto alle religioni sono anch’essi assimilati a dimensioni istituzionali: con cui si fanno concordati, intese, accordi di agibilità ecc. Ma tali complessi e apparati non entrano mai nelle dinamiche culturali e di critica sociale cui invece vengono periodicamente sottoposte tutte le altre istituzioni che nascono nel corpo sociale e che storicamente si evolvono.
Vorrei avanzare in questa sede poco più che un’ipotesi. A mio avviso proprio la “separatezza” delle religioni, il loro godere di statuti “corporativi” in fori separati fa sì che la laicizzazione sia sempre “relativa”, non investendo mai i nuclei fondativi delle singole fedi religiose.
Così, processi come il “dissenso cattolico” o le diverse dispute dottrinarie fra sciiti, sunniti, salafiti, wahabiti o, ancora, le dinamiche oscure che concernono le diverse filiazioni delle chiese ortodosse, non sono mai sfiorate da analisi storico critiche che potrebbero iniziare fruttuosamente addirittura nei banchi delle scuole ove si insegnasse, accanto alla storia, la storia dei miti e delle religioni come parte della cultura contemporanea e del suo farsi cultura critica.
La separatezza quindi come ostacolo alla laicizzazione piena. Anche se mai compiuta, finché il ricorso al “metarazionale” e al “sacro” costituirà il paravento e l’alibi per statuti di cittadinanze non condivisi.
Proprio l’Europa è oggi il teatro in cui la laicizzazione, affidata a religioni ormai divenute “private”, mostra i suoi limiti e le sue contraddizioni. Che si aggiungono a quelle note, di cui in maniera altrettanto reticente, non si parla in queste ore di celebrazioni e di anniversari.