di Claudio Corradetti
Nel dibattito politico recente, numerosi quesiti di bioetica e d’imparzialità dello Stato rispetto all’esposizione pubblica di simboli religiosi, hanno riaperto la questione del rapporto tra diritti e laicità, ovvero del grado di tolleranza pubblica dei punti di vista confessionali. Nel contesto italiano, tale questione non può prescindere dalla considerazione specifica degli accordi che Stato e Chiesa sono venuti a stabilire storicamente, così come delle aspettative politiche e pubbliche che tali accordi hanno di volta in volta contribuito a determinare. Il presente contributo intende innanzitutto approfondire il nesso interno tra la discutibile regolamentazione costituzionale dei poteri e dei rapporti tra Stato e Chiesa come esemplificata dall’articolo 7 della Costituzione, e gli effetti che ne sono derivati sul piano della costruzione di una sfera pubblica democratica. Sull’inopportunità, l’ambiguità e la contraddittorietà di fondo di tale articolo si sono concentrate le critiche di Lelio Basso nel corso sia della sua attività quale membro della i Sottocommissione nella fase costituente, sia nell’ambito della sua attività in qualità di deputato.
Tra il 1946 e il 1977, in una serie di interventi parlamentari e di articoli apparsi sui quotidiani del tempo, Lelio Basso prese posizione sul tema del Concordato tra Stato e Chiesa, suggerendo le ragioni per una sua auspicabile abolizione o eventuale revisione:
Se quindi auspico non la revisione di alcuni articoli, non l’amputazione di qualche ramo secco, ma la fine di quel tronco secco che è il contenuto concordatario dei patti lateranensi, questo è fatto nello spirito di chi crede che da simile operazione abbiano a guadagnare sia lo Stato sia la Chiesa, ma soprattutto abbiano a guadagnare gli uomini, i cittadini dello Stato, il popolo di Dio che costituisce la Chiesa […]. Tutti o quasi tutti gli oratori intervenuti ci hanno detto che di superamento del Concordato non si può assolutamente parlare e che perciò bisogna attenersi alla sola possibilità aperta, che è quella di una revisione. Anch’io, pure essendo in linea di principio contrario al sistema concordatario, sarei favorevole intanto a una revisione […][1].
Pur perseguendo un obiettivo ideale di cancellazione dei termini pattizi e concordatari, Lelio Basso ritenne che l’obiettivo minimo di uno Stato sovrano fosse quello di una modifica dei patti stessi in almeno alcuni dei suoi punti più controversi. Come è noto, tale processo di revisione ebbe esito parzialmente positivo solo nel 1984, con la modifica del Concordato e la cancellazione dell’articolo sulla religione cattolica quale religione di Stato. Sia pur apprezzabile nei suoi intenti, la nuova versione concordataria ha lasciato inalterati i termini procedurali di revisione degli accordi così come altri punti di interesse centrale per l’autonomia democratica della vita dello Stato.
Considerata l’economia generale e gli obiettivi specifici del presente saggio, mi soffermerò su alcuni dei principali punti sollevati, con l’intento di sviluppare quelle che sono le implicazioni possibili all’interno di un quadro di più ampio respiro per la comprensione delle difficoltà che lo scenario pubblico italiano incontra nell’articolazione e nell’esercizio di una «ragione pubblica», libera da condizionamenti strumentali che alterano le possibilità di un’intesa cooperativa, stretta nella morsa di un confronto tra “laici” e “cattolici”.
A tale riguardo, esistono due discorsi fondamentali pronunciati da Basso alla Camera dei deputati: nel primo, del 4 e 5 ottobre 1967, si analizzano gli aspetti giuridicamente ambigui dello strumento concordatario, rilevando gli effetti strumentali e la violazione del diritto di libertà di coscienza e di eguaglianza che si determina in una sfera pubblica così costruita; nel secondo, invece, del 7 aprile 1971 si affronta «lo spirito generale» della questione sollevata da simili accordi, ovvero l’idea secondo cui «libertà, eguaglianza, fede, dignità della persona non siano formule che possano essere stiracchiate in una trattativa mercantile in cui, secondo l’antico adagio, licet contrahentibus sese circumvenire, ma siano momenti essenziali ed irrinunciabili della vita civile»[2].
Lo sviluppo di tali punti conduce a una reinterpretazione e a un rilancio del “principio supremo di laicità”, così come di recente ribadito nella sentenza della Corte Costituzionale del 12 aprile 1989 n. 203, ovvero a una possibile riformulazione dell’art. 7. Nello specifico, la riformulazione dell’art. 7 produce altresì effetti estesi di coerenza interna del testo costituzionale. Mentre gli articoli 7 e 8 della Costituzione prevedono un sistema differenziato di disciplina dei rapporti tra Stato e confessioni religiose, altre disposizioni (si vedano gli articoli 19 e 20) considerano un regime di tutela uniforme per ciò che attiene l’esercizio del culto da parte dei fedeli. L’orizzonte di considerazioni prettamente giuridiche risulterà ampliato una volta affrontati i temi della laicità nei riguardi del discorso pubblico in generale e degli eventuali presupposti etici dello Stato liberale. A tale riguardo Böckenförde ha sostenuto l’incapacità, da parte dello Stato liberale, di garantire quelli che sono i suoi stessi presupposti, ovvero l’esistenza di forme di vita etico-religiose. La riformulazione del concetto di “spazio pubblico” e di “ragione pubblica” in termini ampiamente inclusivi e vincolati ai diritti mira tuttavia a individuare presupposti di eguaglianza e di ragionevolezza pubblica nei confronti dei quali lo Stato laico e liberale potrà ritenersi come il legittimo garante per la stessa sopravvivenza di forme religiose non pubbliche.
Proprio attraverso la riconsiderazione del ruolo della ragionevolezza pubblica vincolata ai diritti fondamentali si renderà possibile la riformulazione e la riattualizzazione di istanze di eguaglianza tra i cittadini avanzate da Lelio Basso lungo il corso di tutta la sua vita politica.
Cominciamo dunque con l’analisi delle argomentazioni avanzate da Basso nel suo discorso al Parlamento tenuto il 4 e 5 ottobre 1967, dove si ricorda anzitutto che la richiesta di abrogazione dell’articolo 7 della Costituzione risale addirittura alle attività svolte in seno alla i Sottocommissione costituente. Basso è convinto del fatto che la richiesta di abrogazione dell’articolo 7 persegua l’intento «di migliorare e non di aggravare i rapporti tra credenti e non credenti»[3], ovvero di realizzare la possibilità di una condizione di eguaglianza pubblica dei cittadini in uno Stato pienamente democratico. Ma perché l’abolizione del Concordato dovrebbe essere vista con favore sia dai fedeli cattolici che dai laici in quanto cittadini di uno Stato democratico? Ebbene, la ragione fondamentale a tale proposito proviene dalla natura specifica rivestita dal Concordato, ovvero dal fatto che questo riflette una sorta di theoria privilegiorum, una lex particularis costituita a vantaggio dell’autorità pontificia, o nel caso più benevolo, di una strumentalizzazione bilaterale tra Stato e Chiesa, un atto compromissorio di delimitazione dei vantaggi reciproci, che soffoca la possibilità di una libera espressione del credo religioso in ambito pubblico. In altri termini, il Concordato riguarda i poteri della Chiesa e dello Stato a costo della stessa libera espressione di culto nella vita politica e nella società civile da parte dei fedeli. La libertà di espressione cede dunque di fronte al reciproco riconoscimento di privilegi, o nei termini utilizzati da Basso:
[…] I Concordati [sono] il prodotto storico dell’era costantiniana, di un’era cioè caratterizzata dall’interconnessione permanente, che diventa confusione, tra potere politico e potere ecclesiastico, con concessione reciproca di privilegi, di cui fa le spese in ogni caso il popolo dei sudditi; perché in uno Stato autoritario i diritti di libertà dei cittadini non hanno più alcun peso e il pubblico potere, che li opprime per conto proprio, non si fa certo scrupolo di manometterli anche a vantaggio della Chiesa, per concedere a questa privilegi, soprattutto a scapito della libertà di coscienza, per i quali naturalmente richiede una moneta di scambio. Ecco perché questo strumento appare superato in un regime democratico, dove il popolo, composto di non credenti e di credenti, e questi ultimi appartenenti a diverse religioni, esercita sulla propria libertà di coscienza una autonoma tutela ed un autonomo controllo attraverso norme giuridiche che garantiscono a tutti i cittadini eguaglianza di trattamento dinanzi alla legge e piena libertà di espressione [enfasi aggiunta][4].
È indubbio che sin da queste prime battute, ci si trovi dinanzi a una relazione di causalità interna tra una sorta di accordo strumentale garantito giuridicamente tra sfere d’influenza politico-religiosa, e una commistione parimenti strumentale del quadro deliberativo pubblico entro il quale i cittadini e le autorità si trovano a dover formulare giudizi validi. Stante una situazione di questo tipo, le ragioni favorevoli o contrarie a una determinata questione non saranno soggette a criteri di rilevanza pubblica autonomamente stabiliti, ma saranno al contrario subordinate a istanze concordatarie di spartizione istituzionale dei privilegi accordati.
Lasciamo in sospeso per il momento questo primo punto, con l’impegno di riprenderlo. Nel prosieguo del suo intervento parlamentare, Basso analizza più dettagliatamente l’effettiva portata costituzionale dell’articolo 7. Il punto che gli sta a cuore è di mostrare la contraddittorietà dell’inserimento nella Costituzione di articoli che regolano i rapporti tra Stato e Chiesa: se infatti l’articolo 7 dà dignità costituzionale ai patti lateranensi, allora anche qualora esso contenesse elementi in contraddizione con la Carta costituzionale, questi risulterebbero giuridicamente validi; d’altra parte, se tali patti non avessero invece alcuno status costituzionale, allora l’entrata in vigore della Costituzione avrebbe abrogato tutte quelle norme concordatarie appartenenti al diritto interno comune e in contrasto con questa, e dunque lo Stato non potrebbe di fatto rispettare gli accordi contenuti nei Patti. Basso enuncia ben sei ragioni a favore di una considerazione dei Patti in termini di legge ordinaria. Anzitutto, citando Dossetti, egli difende il fatto che l’intenzione del legislatore fu esplicitamente contraria a un intendimento “costituzionalizzante” dei rapporti tra Stato e Chiesa; inoltre, la stessa materia normata non sembra essere adatta ad assumere rilevanza costituzionale; ma anche qualora lo fosse, le norme costituzionali regolano l’ordinamento interno dello Stato e non dei rapporti con soggetti esterni «sicché una loro trasfusione nella Costituzione è giuridicamente impossibile, a meno di non voler ammettere delle norme costituzionali che abbiano come destinatari dei soggetti esterni allo Stato» (1967, 30). Inoltre, con ciò si verrebbe a contraddire la stessa indipendenza di sovranità tra i due enti enunciata in apertura, poiché a questa si aggiungerebbero dei diritti/doveri garantiti in modo reciproco. Passando alla quarta ragione, che secondo l’autore è la più decisiva, se si ammettesse il carattere costituzionale dei Patti, allora non si riuscirebbe a spiegare perché ogni loro eventuale modifica non debba essere soggetta a revisione costituzionale; ma se, al contrario, una modifica dei Patti può avvenire sulla base di un reciproco accordo tra le parti, e senza che si dia luogo a un processo di modifica della Costituzione, allora i Patti non assumono validità costituzionale. Una controprova a una simile idea di costituzionalità degli accordi è data inoltre dal fatto che lo Stato italiano non può neanche impedire che la Chiesa abbandoni, in modo unilaterale, gli impegni presi. In ultimo, un ulteriore dettaglio tecnico-giuridico che ci porta a escludere la valenza costituzionale dei Patti è dato dal fatto che la loro efficacia giuridica interna deriva da una legge di esecuzione (Basso si riferisce alla legge di esecuzione del 27 maggio 1929, n. 810), e che se si fosse voluto assegnare rilievo costituzionale ai Patti, allora si sarebbe dovuto inserire nel testo costituzionale la stessa legge di esecuzione.
Le conclusioni di Basso vertono dunque sul fatto che proprio in virtù dell’entrata in vigore della Costituzione italiana, alcune norme pattizie contrarie ai principi costituzionali sono di fatto decadute, e che dunque lo Stato non è tenuto a rispettare quegli accordi contrari allo spirito della Costituzione. Esempi a tale riguardo sono l’articolo 1, rivisto poi nel 1984, dove si riconosce la religione cattolica quale religione di Stato, o l’articolo 36 riguardante l’istruzione cattolica come “fondamento e coronamento dell’istruzione pubblica”, solo in parte modificato in seguito[5]. Ma qui, e questo è a mio avviso il nodo centrale dell’argomentazione di Basso in favore di una revisione del Concordato, se il sistema rimanesse incoerente, allora lo Stato verrebbe meno a uno dei suoi principali doveri verso i propri cittadini, cioè a dire proprio a quella rimozione degli ostacoli materiali contenuta nell’articolo 3 della Costituzione che Basso aveva più di tutti ostinatamente voluto:
Ma – oserei dire – questa esigenza di un adeguamento dei patti alla Costituzione sarebbe ancora maggiore se si dovesse accettare la tesi contraria, cioè che i patti sono rimasti interamente in vigore, perché è dovere del Governo operare affinché i principi fondamentali su cui poggia la nostra comunità civile abbiano integrale attuazione nella pratica e siano eliminati gli ostacoli che possano impedirne la piena esplicitazione, tanto più che un paese civile deve avere un ordinamento unitario; e tale non sarebbe il nostro, se nello stesso corpo della Costituzione sussistessero, le une accanto alle altre, norme contraddittorie, con una lacerazione permanente della coerenza del sistema[6].
Insomma, il problema cui dà adito la risoluzione concordataria della questione romana mette a rischio lo stesso principio di eguaglianza pubblica dei cittadini dello Stato democratico, in quanto garantisce privilegi specifici ad alcuni gruppi a discapito di altri. Come uscire da questa difficoltà? Basso ci dice, verso la fine del suo intervento del 4 ottobre 1967, che la via di risoluzione dei problemi implicati non è di natura giuridica ma di coscienza civica. I cittadini devono imparare a saper distinguere tra la propria identità in quanto cattolici, ad esempio, e quella in quanto cittadini dello Stato italiano. Affinché possa maturarsi nella coscienza comune una simile presa di consapevolezza, è necessario altresì che l’intera politica sia investita di simile compito. Solo così sarà possibile realizzare un auspicato dialogo tra laici e cattolici sui temi centrali per il paese. All’impossibilità del dialogo prefigurato da Dostojewski, Lelio Basso contrappone la semplice difficoltà comunicativa dovuta alla diversità di linguaggio. Se il credente parte da un’assunzione di verità e d’infallibilità della dottrina e la applica all’ambito pubblico, il laico non riconosce la validità di ragioni che hanno origine da credenze religiose, anche se in queste non si esauriscono. Questa forma di incommensurabilità dei linguaggi adottati deve ritradursi in un quadro pubblico di sfondo condiviso, a partire dal quale sia possibile elaborare ragioni parimenti accettabili. Questo punto sembrerebbe alludere alla subordinazione della ragionevolezza delle ragioni pubbliche a quelli che J. Rawls ha definito come «gli oneri del giudizio», ovvero a quei vincoli di accettabilità pubblica rivolti alla possibilità di costruire soluzioni pubbliche condivisibili che fanno sì che la ragionevolezza sia un risultato e non un postulato anticipato a priori.
Anche questo punto sarà ripreso oltre, proprio al fine di costruire un quadro teorico di validità delle ragioni pubbliche coerente con le osservazioni sviluppate. Prima però, ripercorrerò i punti salienti di un altro intervento parlamentare pronunciato da Lelio Basso nella seduta del 7 aprile 1971, dove si affronta «lo spirito generale» della questione degli accordi tra Stato e Chiesa. Il percorso argomentativo è il seguente: se si prendono seriamente valori come la libertà e l’eguaglianza, allora per via della loro stessa indisponibilità, non è possibile vincolarli a degli accordi strumentali che li limitino all’interno di spazi giuridicamente regolati. In altre parole, il Concordato, delimitando le aree d’influenza reciproca, mette in gioco la stessa libertà dei fedeli e dei cittadini in senso ampio, e questo perché in un regime di «libertà» e non di «privilegio», «non c’è bisogno di Concordato, perché essa [la libertà] deve trovare il suo fondamento nella Costituzione e nelle leggi dello Stato, e più ancora nella coscienza dei cittadini»[7]. Secondo Basso il vero superamento della questione romana non si è avuto con l’accordo stabilito dai Patti lateranensi nel 1929, ma ben prima, cioè nel 1913 con la fine del non expedit, ovvero del divieto di partecipazione dei cattolici alla vita politica del paese. I Patti non sono stati il frutto di una convergenza di volontà su temi condivisi, ma il risultato di una mediazione di compromesso tra volontà divergenti volte a massimizzare il proprio interesse, o come direbbe Basso – privilegio – a discapito della controparte.
Il tema della strumentalità della ragione alla base dell’accordo tra le parti, sembra essere il nucleo centrale di questo secondo intervento di Basso in Parlamento. Egli critica il carattere interessato e compromissorio dell’accordo come il vero problema da risolvere ai fini di una salvaguardia delle libertà fondamentali di tutti i cittadini. Il Concordato ha subordinato le libertà fondamentali disponibili nello spazio pubblico condiviso a un accordo strumentale tra l’autorità dello Stato e l’autorità della Chiesa; questo fatto ha poi avuto conseguenze disastrose per la possibilità di costruire uno spazio pubblico di discussione capace di tenere in considerazione una molteplicità e varietà di ragioni pubbliche in competizione, ma tutte pubblicamente ammissibili.
Insomma, per dirla brevemente, se in Italia non si è resa possibile una maturazione civica delle coscienze né la costruzione di uno spazio pubblico di deliberazione politica non sottoposto a logiche di strumentalizzazione, questo è perché i rapporti tra Stato e Chiesa sono stati affrontati nei termini di un riconoscimento di privilegi reciproci a discapito delle libertà di espressione pubblica dei fedeli e dei cittadini tutti. Ristabilire la priorità delle libertà dei cittadini, e dunque di quella che si potrebbe definire con Habermas come la priorità della «ragione comunicativa» sulla «ragione strumentale», vuol dire ridare priorità ai valori della Costituzione, troncando «quel ramo secco» rappresentato dall’accordo dei Patti:
[…] Ci sono nella nostra Costituzione e, più in alto ancora, ci sono nella nostra coscienza dei valori che non possono in nessun caso essere mercanteggiati dal Governo nelle trattative con la Chiesa e non possono essere mercanteggiati dai partiti nelle trattative di governo: sono i valori su cui deve fondarsi una vita civile e democratica[8].
Con questa osservazione Basso chiude il suo secondo e ultimo intervento alla Camera dei deputati dedicato al tema del rapporto tra Stato e Chiesa. Nella parte finale del presente saggio tenterò di ordinare e di collegare le osservazioni e le intuizioni politiche fin qui rilevate nel nostro autore, confrontandole con alcuni dei modelli più avanzati di ragionevolezza pubblica elaborati nell’ambito della filosofia politica più recente. A tale riguardo farò riferimento essenzialmente ad alcune formulazioni recenti di Habermas e di Rawls relative a contesti pluralistici di fede e di credenze di sfondo, cioè a quel “fatto del pluralismo”, come lo definisce Rawls, rispetto al quale qualsiasi modello politico democratico contemporaneo deve potersi misurare.
Nello Stato liberale moderno, i cittadini sono tutti parimenti depositari di eguali diritti nei confronti dello Stato. Solo in quanto autori e destinatari di procedure decisionali massimamente inclusive essi possono definirsi come membri legittimi di procedure deliberative democratiche. Ma la formazione di una volontà deliberativa volta all’intesa non può esser costruita come somma aritmetica di volontà particolari, ognuna orientata alla massimizzazione del proprio interesse. Al contrario, la costruzione di una volontà comune prende spunto dall’intreccio delle differenze di ragioni pubblicamente ammissibili come ragioni che tutti dovrebbero razionalmente accettare. Affinché questo divenga possibile, è necessario che nella sfera pubblica informale sia dato ampio spazio non soltanto alla diversità di opinione, ma anche alla stessa ricerca di ragioni valide alla costruzione di un’intesa ragionevole. I cittadini, insomma, devono sottostare a quello che Rawls definisce come «l’obbligo della cortesia»[9], cioè l’obbligo di prestare attenzione alle ragioni messe in campo dagli altri, fornendo altresì chiarimenti sulle proprie posizioni. Ma la pretesa di ascolto avanzata da ogni ragione pubblica sottostà, a sua volta, al grado d’imparzialità da essa esibito. Affinché l’ascolto e la reciproca assunzione di prospettiva possano liberamente realizzarsi, è necessario che le ragioni pubblicamente addotte, pur traendo origine da visioni religiose o filosofiche specifiche, vengano tradotte in ragioni politiche imparziali. A tale riguardo Habermas parla, come Rawls, di un «onere aggiuntivo» di una «riserva» pubblica posta nei confronti di ragioni derivanti da dottrine onnicomprensive[10]; una volta superato il test di ammissibilità, le ragioni che scaturiscono da contesti filosofico-religiosi ambiscono a una validità pubblica in modo indipendente dalla propria connotazione onnicomprensiva. L’onere di traduzione in ragioni pubblicamente ammissibili determina un grado di validità pubblica autonomo rispetto al contesto di origine. Si tratta di stabilire, come dice Habermas mutuando un’espressione rawlsiana, «un theo-ethical equilibrium»[11] tra le convinzioni confessionali e le convinzioni laiche.
Se ci si arrestasse qui, avremmo una sfera pubblica informale, nonché una sfera pubblica formale rigidamente vincolate a un principio forte di laicità delle ragioni. Ma l’obiezione che Habermas considera nei confronti del theo-ethical equilibrium, e che in realtà abbraccia più estesamente anche la nozione rawlsiana di reflective equilibrium nel senso di rendere coerenti “considered judgements” e dottrine e principi etici di sfondo, riguarda l’impossibilità da parte di un’ampia porzione di credenti di compiere un salto cognitivo, e di liberarsi degli aspetti totalizzanti del credo religioso a favore di un ambito politico condiviso. È dunque per tale ragione che si rende necessaria una divisione funzionale di compiti tra un ambito pubblico inteso come sfera politica istituzionale e un ambito pubblico inteso come sfera sociale informale, ciascuno dotato di prerogative specifiche. Se nel caso della sfera pubblica informale i cittadini possono liberamente avanzare ragioni religiosamente connotate, salvaguardando dunque quelle stesse premesse non politiche di cui si nutre la dimensione politica statale[12], nell’altro, la sfera politica istituzionale deve sottostare a un vincolo di rispetto della neutralità dello Stato che non può che prendere la forma di un principio di laicità pubblica quale unico metodo di garanzia della validità delle decisioni istituzionali e di disinnesco della potenzialità conflittuale e disgregatrice delle ragioni pubbliche non secolari.
A questo punto, se si ritorna al principio fondamentale alla base del processo di funzionamento democratico, ovvero a quell’essere parimenti «autori e destinatari» del processo legislativo da parte dei cittadini dello Stato liberale, si potrebbe ritenere che la separazione tra una sfera politica istituzionale retta dal vincolo di laicità, e una sfera pubblica informale lasciata libera, ponga un fardello psicologicamente troppo oneroso a quei cittadini appartenenti a comunità religiose. Ma in un sistema di rappresentanza politica, a una divisione funzionale delle sfere pubbliche deliberative corrisponde un diverso “onere giustificativo” delle ragioni che si adottano. Se nell’ambito pubblico informale i cittadini, in quanto sostenitori di particolari visioni del mondo, sono legittimi depositari delle rispettive comunità solidali di appartenenza, nell’ambito pubblico istituzionale i rappresentanti politici sono vincolati al corpo elettorale in quanto tale. In altre parole, lo stesso requisito di ragionevolezza pubblica istituzionale implica che le giustificazioni a supporto di particolari decisioni non debbano privilegiare un corpo elettivo rispetto a un altro, favorendo così una “dittatura della maggioranza”; al contrario, attraverso vincoli pubblici di dibattito la ragionevolezza pubblica pretende un consenso razionalmente motivabile da parte anche della stessa minoranza in disaccordo. In tale contesto, i cittadini riconoscono nella neutralità delle motivazioni politiche a sostegno di decisioni specifiche la garanzia della stessa virtuale sopravvivenza delle proprie ragioni onnicomprensive nella sfera pubblica informale. La percezione della ragionevolezza di decisioni adottate “secondo giusti principi”, anche qualora queste non favorissero la possibilità di una ritraduzione “onnicomprensiva”, stimolerebbe un processo di riformulazione delle proprie posizioni in ragioni virtualmente accettabili da parte di ciascuno, ovvero di punti di vista radicati in contesti filosofico-religiosi specifici. L’attività di partecipazione al processo democratico è così garantita dalla stessa conformità al principio di ragionevolezza pubblica delle decisioni adottate a livello politico istituzionale; ai cittadini infatti viene lasciata aperta la possibilità di sottoporre pubblicamente istanze di revisione di decisioni già adottate. Attraverso un dibattito aperto alle istanze più propriamente onnicomprensive della sfera pubblica informale, nuove maggioranze politiche possono prender forma; la possibilità di raccogliere un consenso sempre più ampio su una vertenza inizialmente minoritaria costringe gli stessi promotori ad articolare in modo sempre più autonomo – o per dirla con Ralws in modo «free-standing» – le ragioni a supporto di una particolare forma di revisione. Tale processo di astrazione fa sì che il peso giustificativo di ragioni propriamente onnicomprensive venga progressivamente alleggerito e trasferito a forme di razionalità cognitivamente diverse, ovvero a ragioni massimamente inclusive deprivate di connotazioni specifiche di gruppo. Solo così è possibile per comunità filosofico-religiose particolari guadagnarsi il consenso di un numero sempre più ampio di cittadini.
Alla luce di quanto detto, le osservazioni di Lelio Basso assumono un significato del tutto particolare. Il problema non consiste nel risolvere attraverso patti giuridicamente vincolanti il rapporto tra Stato e Chiesa, bensì nel favorire il fiorire di argomentazioni pubblicamente valide che scaturiscano dalle più svariate visioni del mondo. I cittadini, proprio in virtù delle rispettive differenze di credenze, devono vedersi garantita la possibilità di accesso alla sfera pubblica sulla base del riconoscimento di diritti costituzionali di pari dignità ed eguaglianza che vincolano il dibattito pubblico a ragioni universalmente accettabili da parte di ciascuno. Imbrigliare la dialettica discorsiva tra le parti in competizione all’interno di una logica di spartizione di privilegi, vuol dire frustrare la stessa possibilità di autoaffermazione della ragionevolezza pubblica. La società post-secolare, ovvero quella forma di società capace di comprendere la validità delle ragioni che si originano da forme di vita onnicomprensive, tende a stabilire una priorità dei diritti costituzionali fondamentali su ogni possibile forma di accordo secondo modus vivendi. La priorità dei vincoli pubblici di diritto favorisce l’ascesa di modelli in competizione che mirano a una forma di riconoscimento e di validità universale. È dal dibattito regolato da procedure democratiche, dunque, che si stabilisce l’onere della validità e dell’accettabilità di ogni singola proposta avanzata, dibattito che nel garantire la priorità dei diritti costituzionali su ogni forma di accordo strumentale tra le parti, subordina a sé, ovvero al raggiungimento di una deliberazione secondo giusti principi, la possibilità di un’imposizione parziale di qualsiasi visione comprensiva del Bene.
Basso ha avuto il merito di cogliere l’importanza della questione del pluralismo nelle democrazie moderne, e ancor di più di suggerire una soluzione che lungi dall’avanzare schemi di spartizione di potere e di competenze, ha favorito la crescita di una cultura civica multiforme in grado di rispettare le regole fondamentali di un confronto ampiamente democratico. Benché nello scenario politico attuale ci si riferisca spesso alle ragioni dei laici o ancor più spesso dei cattolici, l’errore persistente resta quello di un utilizzo strumentale, da ambo le parti, di visioni comprensive proiettate nell’ambito delle istituzioni pubbliche. Il consenso politico non può e non deve essere guadagnato attraverso un gioco al ribasso di ragioni interessate, ma deve piuttosto innalzarsi alla ricerca di ragioni orientate all’intesa che possano risultare, se non pienamente convincenti, almeno accettabili alle minoranze in competizione.
Note
[1] L. Basso, Discorso pronunciato alla Camera dei deputati, 7 aprile 1971, in Id., Discorsi parlamentari, Senato della Repubblica, Segretariato generale, Servizio studi, Roma 1988, pp. 826-7.
[2] L. Basso, Su mozioni e interpellanze riguardanti la revisione del Concordato tra lo Stato e la Santa Sede, 7 aprile 1971, in Id., Discorsi parlamentari, cit., pp. 825-6.
[3] L. Basso, Su una mozione riguardante la revisione dei patti lateranensi, 4 ottobre 1967, in Id., Discorsi parlamentari, cit.
[4] Ivi, pp. 712-3.
[5] L’articolo 30 della modifica al Concordato del 1984 recita: «La Repubblica italiana, riconoscendo il valore della cultura religiosa e tenendo conto che i principi del cattolicesimo fanno parte del patrimonio storico del popolo italiano, continuerà ad assicurare, nel quadro delle finalità della scuola, l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche non universitarie di ogni ordine e grado. Nel rispetto della libertà di coscienza e della responsabilità educativa dei genitori, è garantito a ciascuno il diritto di scegliere se avvalersi o non avvalersi di detto insegnamento. All’atto dell’iscrizione gli studenti o i loro genitori eserciteranno tale diritto su richiesta dell’autorità scolastica, senza che la loro scelta possa dar luogo ad alcuna forma di discriminazione».
[6] Ivi, p. 728.
[7] L. Basso, Su mozioni e interpellanze riguardanti la revisione del Concordato tra lo Stato italiano e la Santa Sede, cit., p. 827.
[8] Ivi, p. 835-6.
[9] J. Rawls, Liberalismo Politico, a cura di S. Veca, Edizioni di Comunità, Milano 1994, p. 217.
[10] J. Habermas, Tra scienza e fede, Laterza, Roma-Bari 2006, pp. 19-52.
[11] Ivi, p. 30.
[12] A tale proposito si veda il paradosso posto da Böckenförde sui limiti dello Stato liberale di salvaguardare le medesime premesse onnicomprensive dalle quali ha origine, ad esempio in una sua recente Relazione al seminario di Reset-Dialogues On Civilizations presso il Centro studi americani, 8 ottobre 2008, intitolata “Lo Stato secolarizzato nel suo rapporto con la religione”.