Home Laicità vo cercandoContributi Lelio Basso e la battaglia per la laicità dello Stato

Lelio Basso e la battaglia per la laicità dello Stato

di redazione

di Giancarlo Monina

Il rapporto tra diritti e laicità è stato uno dei temi chiave che ha attraversato l’intera biografia politica e intellettuale di Lelio Basso (1903-1978): leader socialista, padre costituente e figura di primo piano nella storia nazionale e internazionale[1]. Un tema che, nel contesto italiano, è emerso in particolare nella sua lunga battaglia anticoncordataria e nell’attenzione da lui costantemente rivolta al “dialogo con i cattolici”. Tra i principali oppositori dell’art. 7 in Assemblea costituente, Basso sviluppò l’impegno per l’affermazione di uno Stato laico fino ai suoi ultimi giorni di vita, nelle vesti di parlamentare, di leader politico e di giurista. Fu proprio una sua mozione parlamentare, nel marzo 1965, ad aprire la lunga strada di un processo di revisione che arriverà fino alla modifica del Concordato del 1984. Nei diluiti passaggi di questo corso revisionista, egli fu protagonista in primo luogo con i suoi discorsi parlamentari, dell’ottobre 1967 e dell’aprile 1971, in cui rileva gli aspetti giuridicamente ambigui dello strumento concordatario e le sue conseguenze in termini di violazione del diritto di libertà di coscienza, di fede, di eguaglianza e di dignità della persona. Tuttavia, alle critiche di ordine giuridico-costituzionale, Basso accompagnò la consapevolezza dell’insufficienza dell’eteronomia della legge e ricondusse sempre il problema alla sua dimensione politica e culturale rilevando come la questione di fondo risieda nel vincolo protettivo e paternalistico esercitato dalla Chiesa nelle condizioni di «una crisi della società presente, [di] una crisi della concezione individualistica che, da elemento di forza di una ristretta classe in ascesa, si è trasformata nella disperazione e nell’angoscia, nella tragica impotenza dell’uomo moderno che l’ingranaggio inesorabile della società minaccia di continuo di schiacciare, come gli eroi kafkiani»[2]. Con questo stesso spirito Basso affrontò il tema, per lui centrale, del “dialogo con i cattolici” che intese mantenere sul terreno della democrazia e del progresso sociale, nel quadro di uno Stato modernamente laico, riconoscendo al cristianesimo gli elementi democratici, e persino rivoluzionari, dei suoi valori essenziali: dall’eguaglianza al rispetto della persona, dalla esaltazione degli umili all’amore del prossimo, fino alla solidarietà.

Di seguito riportiamo un brano estratto dal terzo discorso di Basso nel dibattito parlamentare sulla revisione del Concordato e che, svolto il 7 dicembre 1978 a pochi giorni dalla sua morte, fu anche l’ultimo. Un intervento in cui il leader socialista ripercorre brevemente le tappe del suo impegno e conclude rivendicando «l’utopia dell’abrogazione», ma non solo questa utopia.

Al testo di Basso segue un commento di Claudio Corradetti tratto da un suo saggio dedicato alcuni anni fa all’attualità del pensiero del leader socialista in tema di laicità e di ragione pubblica.

(Giancarlo Monina)

Estratto dall’ultimo discorso pronunciato da Lelio Basso al Senato, il 7 dicembre 1978, nel dibattito sulla revisione del Concordato[3].

 

«Assistendo tra ieri e oggi a questo dibattito, avevo l’impressione che una fantascientifica macchina del tempo fosse intervenuta a far ruotare indietro la storia per riportarci a tempi passati: perché la discussione che stiamo facendo è una discussione che avremmo dovuto fare oltre trent’anni fa, quando si votò l’articolo 7 della Costituzione.

Io ricordo che quando la proposta di quello che poi divenne l’articolo 7 fu affacciata alla prima sottocommissione della Costituente, di cui facevo parte, pubblicai sull’“Avanti”, giornale dei mio partito di allora, un articolo in cui appunto dicevo: se si vuole introdurre nella Costituzione questo articolo (noi eravamo contrari ma ci poteva essere e ci fu una maggioranza) che garantisca una tutela costituzionale al Concordato, non può essere per questo Concordato fascista, che è – come è stato poi riconosciuto – in antitesi con la Costituzione; il Concordato deve essere riveduto. La risposta autorevole che ebbi fu, da parte democristiana: noi abbiamo la forza e quindi facciamo il diritto. […] L’articolo 7 fu così approvato ed il Concordato entrò nella Costituzione nella formulazione che aveva avuto nel 1929 e, a mio giudizio, ha pesato per molti anni in senso negativo sulla nostra vita, perché ha permesso in anni passati di giustificare le ingiustificabili pretese della Chiesa a privilegi in ogni campo, dalla censura teatrale e cinematografica a privilegi fiscali, permettendo anche purtroppo negli anni ‘50 persecuzioni contro gli acattolici, che costituirono una pagina dolorosa della nostra storia repubblicana.

Tuttavia noi laici non disarmammo e continuammo la battaglia nel Paese. Sapevamo che nessuna potestà né civile né religiosa può arrestare il flusso della storia, può arrestare i processi di crescita e di maturazione della coscienza umana.

[…] Quando nel 1965 credetti che il Concilio avesse contribuito a far maturare i tempi, presentai una mozione alla Camera in cui chiedevo la revisione del Concordato. La mozione, presentata all’inizio del 1965, fu discussa quasi tre anni dopo, alla fine del 1967. Essa diede luogo ad un voto che mise in moto il meccanismo di revisione che ora ci porta a questa discussione. Quando fu presentata, la mozione fu accolta dallo scetticismo generale, perché parlare di revisione era giudicato utopia. Quando si giunse alla discussione, tutti i partiti si accorsero che il Paese aveva camminato molto di più di quanto essi pensassero, per cui tutti furono in favore di una revisione. Ma in questo Paese i privilegi sono duri a morire ed i problemi si affrontano solo quando la mancata soluzione ha già provocato dei danni molto spesso irrimediabili. E quindi ci sono voluti ancora 11 anni dal voto del 1967 per arrivare a discutere questo testo che mi auguro non sia ancora il testo definitivo.

[…] Sta di fatto che queste trattative – studi della commissione Gonella prima e successive trattative con il Vaticano – si sono trascinate molti altri anni per cui abbiamo avuto finora tre testi, il che significa per lo meno, poiché ogni testo appare migliorativo rispetto al precedente (anche se alcune clausole di questo terzo testo a me sembrano peggiorative del secondo), che la Chiesa era disposta ad andare molto più avanti di quanto proponesse allora la commissione e di quanto essa abbia successivamente richiesto, e che pure ogni volta ci veniva presentato come una grande conquista, come il massimo ottenibile.

Il primo testo non presentava quasi nessuna modifica di sostanza, neppure la rinuncia alla religione cattolica come religione ufficiale. Questa fu una conquista del secondo testo; ma in realtà, era solo il riconoscimento di una conquista che il popolo italiano aveva fatto da sé con il referendum del 2 giugno e con la Costituzione repubblicana. La Chiesa in realtà in quel secondo testo non dava assolutamente nulla; mancava il do ut desmancava il carattere fondamentale di ogni patto tra uguali che è uno scambio di equivalenti. […] Le cose non sono molto avanzate nel nuovo testo. La novità più importante potrebbe essere l’articolo 1 nel quale Chiesa e Stato riconoscono reciproche indipendenza e sovranità, ciascuno nel proprio ordine. Ma che cosa significa questo riconoscimento da parte della Chiesa della sovranità dello Stato e dell’indipendenza dello Stato? Significa che la Chiesa rinuncia ad interferire attraverso le autorità religiose, siano il Papa, i vescovi, i sacerdoti e tutte le organizzazioni che beneficiano dei privilegi concordatari, nella politica dello Stato italiano? Che si impegna a rispettarne la sovranità, a non abusare dell’autorità religiosa per vincolare il voto dei fedeli in un referendum o in una elezione? Se questo è il significato deve essere detto chiaramente, ma se così non fosse l’articolo sarebbe puro flatus vocis perché non vi sono altri modi per riconoscere e rispettare l’indipendenza e la sovranità dello Stato nel proprio ordine. E non ditemi che la politica è l’arte del possibile e che è prova di realismo riuscire ad ottenere tutto quello che si può ottenere. La storia non cammina soltanto con i trattati ed i rescritti dei potenti, ma con il passo degli uomini, con lo sviluppo della coscienza umana. Gli uomini sono andati ormai molto più in là di quello che stiano discutendo ora in questa Aula. Oggi è sempre più diffuso tra i laici il sentimento che il Concordato è una umiliazione per lo Stato e tra i cattolici è diffuso il sentimento che sia una umiliazione per la stessa Chiesa.

Ecco perché fin dal 1972 quando era chiaro che le trattative si svolgevano con un ritmo troppo lento e che la revisione sarebbe arrivata in ritardo, io presentai alla Camera una proposta di legge costituzionale per modificare l’articolo 7. Il minimo che oggi si possa chiedere, che questo Parlamento possa chiedere, se si vuole ancora mantenere in vita il Concordato, è per lo meno di liberare lo Stato dal vincolo, che la Chiesa non ha, di non poter denunciare, se lo ritenga, un giorno il Concordato. Noi abbiamo questa situazione anomala dei due contraenti per cui la Chiesa è libera di rinunciare in qualunque momento al Concordato, mentre lo Stato si autovincola con una norma costituzionale. Occorrerebbe almeno ristabilire la parità e arrivare ad una nuova formulazione dell’articolo 7, il che sarebbe il minimo che si dovrebbe fare. E questo può farlo il Parlamento. Solo in queste condizioni di dignità, la Repubblica potrebbe apporre la propria firma al Concordato. […] Sarebbe grave se la Repubblica si vincolasse oggi ancora con un Concordato, neppure nuovo, ma che è una semplice modifica del Concordato fascista che per molti italiani e per molti cattolici, anche per De Gasperi, costituì allora e costituisce ancora oggi una ferita bruciante.

Ho fiducia che il Parlamento italiano raccolga queste voci e comunque sono certo che non sarò il solo a continuare questa battaglia che, sia ben chiaro, non ha nulla di comune con battaglie anticlericali, ma vuole essere un dialogo continuo con il mondo cattolico per sollecitare la maturazione di quella coscienza laica e moderna che fuori d’Italia avanza ogni giorno.

[…] Il mio appello più appassionato va ai cattolici perché non è contro di loro, ma con loro che vorrei fosse percorsa questa strada. […] Anche se l’atteggiamento successivo della Chiesa l’ha smentita nei fatti, la grande parola conclusiva del Concilio, “la Chiesa non chiede privilegi, ma libertà”, rimane la parola d’ordine delle nuove generazioni cattoliche, soprattutto nei popoli che emergono da secoli oscuri di oppressione. Ed è la parola d’ordine che un giorno tutta la Chiesa dovrà fare propria. Così come il predominio della Chiesa ha potuto vivere finché era radicato nella coscienza degli uomini, così oggi questa libertà della Chiesa può essere assicurata non da labili strumenti pattizi che le vicende politiche potrebbero in qualunque momento travolgere, ma dalla coscienza democratica, dalla maturità civile degli uomini, siano essi laici o cattolici. Tutte le libertà che la Chiesa ha il sacrosanto diritto di rivendicare, sono inscritte nella nostra Costituzione repubblicana indipendentemente dall’articolo 7, e sono inscritte nella Costituzione perché sono nella coscienza, alla quale alla lunga nessuna imposizione può essere fatta. Abbarbicandosi a un passato che è morto, la Chiesa rischia il suo prestigio. Qualcuno potrebbe obiettarmi: a quale titolo tu ti preoccupi del prestigio della Chiesa? Ho detto molte volte, nel corso delle innumerevoli discussioni che facciamo da oltre trent’anni, che considero la dimensione religiosa come di grande importanza per la vita dell’umanità, che considero il momento religioso come un momento essenziale della vita di centinaia di milioni di uomini che non posso essere indifferente né a questi uomini né a tutti coloro, fra cui sono anch’io, che con essi hanno quotidiani rapporti.

[…] Un autorevole giornale, commentando il dibattito di ieri in quest’Aula, diceva stamani che l’utopia dell’abrogazione del Concordato era rimasta fuori dell’Aula. Ebbene, io non ho timore di confessare questa utopia, come non ho timore di confessare l’utopia del socialismo, come non ho il timore di confessare l’altra utopia, la più grande e la più pericolosa, che tutti gli uomini, come è scritto nella nostra Costituzione, avranno un giorno su questa terra pari e piena dignità sociale, saranno da tutti considerati fini e non strumenti del potere altrui.

Rileggevo pochi giorni fa, tra un viaggio in Brasile e un viaggio in Giappone, dove andavo ad inseguire ovunque queste mie utopie, le Epistole di Paolo su cui avevo lungamente meditato cinquant’anni fa quando preparavo la mia tesi di laurea in filosofia, e come sempre mi colpivano le sue parole là dove ammonisce che con il Vangelo non vi sarebbero stati più né giudei né gentili, né greci né barbari.

Vorrei citare a memoria – chiedo scusa se sbaglio – l’epistola ai colossesi, dove dice appunto: “qui non c’è né greco né giudeo, né circoncisione né incirconcisione, né barbaro né sciita, né liberi né schiavi, c’è Cristo in tutti”.

È forse utopia lottare, anche se purtroppo non si ha la forza di Paolo di Tarso, per preparare un’umanità in cui essere cattolici o protestanti, cristiani od ebrei, musulmani o buddisti, credenti o atei non debba più costituire per nessuno né motivo di persecuzione, né titolo di privilegio?»

Estratto da Claudio Corradetti, Laicità e ragione pubblica. Attualità del pensiero di Lelio Basso[4]

«[…] Nello Stato liberale moderno, i cittadini sono tutti parimenti depositari di eguali diritti nei confronti dello Stato. Solo in quanto autori e destinatari di procedure decisionali massimamente inclusive essi possono definirsi come membri legittimi di procedure deliberative democratiche. Ma la formazione di una volontà deliberativa volta all’intesa non può esser costruita come somma aritmetica di volontà particolari, ognuna orientata alla massimizzazione del proprio interesse. Al contrario, la costruzione di una volontà comune prende spunto dall’intreccio delle differenze di ragioni pubblicamente ammissibili come ragioni che tutti dovrebbero razionalmente accettare. Affinché questo divenga possibile, è necessario che nella sfera pubblica informale sia dato ampio spazio non soltanto alla diversità di opinione, ma anche alla stessa ricerca di ragioni valide alla costruzione di un’intesa ragionevole. I cittadini, insomma, devono sottostare a quello che Rawls definisce come «l’obbligo della cortesia»[5], cioè l’obbligo di prestare attenzione alle ragioni messe in campo dagli altri, fornendo altresì chiarimenti sulle proprie posizioni. Ma la pretesa di ascolto avanzata da ogni ragione pubblica sottostà, a sua volta, al grado d’imparzialità da essa esibito. Affinché l’ascolto e la reciproca assunzione di prospettiva possano liberamente realizzarsi, è necessario che le ragioni pubblicamente addotte, pur traendo origine da visioni religiose o filosofiche specifiche, vengano tradotte in ragioni politiche imparziali. A tale riguardo Habermas parla, come Rawls, di un «onere aggiuntivo» di una «riserva» pubblica posta nei confronti di ragioni derivanti da dottrine onnicomprensive[6]; una volta superato il test di ammissibilità, le ragioni che scaturiscono da contesti filosofico-religiosi ambiscono a una validità pubblica in modo indipendente dalla propria connotazione onnicomprensiva. L’onere di traduzione in ragioni pubblicamente ammissibili determina un grado di validità pubblica autonomo rispetto al contesto di origine. Si tratta di stabilire, come dice Habermas mutuando un’espressione rawlsiana, «un theo-ethical equilibrium»[7] tra le convinzioni confessionali e le convinzioni laiche.

Se ci si arrestasse qui, avremmo una sfera pubblica informale, nonché una sfera pubblica formale rigidamente vincolate a un principio forte di laicità delle ragioni. Ma l’obiezione che Habermas considera nei confronti del theo-ethical equilibrium, e che in realtà abbraccia più estesamente anche la nozione rawlsiana di reflective equilibrium nel senso di rendere coerenti “considered judgements” e dottrine e principi etici di sfondo, riguarda l’impossibilità da parte di un’ampia porzione di credenti di compiere un salto cognitivo, e di liberarsi degli aspetti totalizzanti del credo religioso a favore di un ambito politico condiviso. È dunque per tale ragione che si rende necessaria una divisione funzionale di compiti tra un ambito pubblico inteso come sfera politica istituzionale e un ambito pubblico inteso come sfera sociale informale, ciascuno dotato di prerogative specifiche. Se nel caso della sfera pubblica informale i cittadini possono liberamente avanzare ragioni religiosamente connotate, salvaguardando dunque quelle stesse premesse non politiche di cui si nutre la dimensione politica statale, nell’altro, la sfera politica istituzionale deve sottostare a un vincolo di rispetto della neutralità dello Stato che non può che prendere la forma di un principio di laicità pubblica quale unico metodo di garanzia della validità delle decisioni istituzionali e di disinnesco della potenzialità conflittuale e disgregatrice delle ragioni pubbliche non secolari.

A questo punto, se si ritorna al principio fondamentale alla base del processo di funzionamento democratico, ovvero a quell’essere parimenti «autori e destinatari» del processo legislativo da parte dei cittadini dello Stato liberale, si potrebbe ritenere che la separazione tra una sfera politica istituzionale retta dal vincolo di laicità, e una sfera pubblica informale lasciata libera, ponga un fardello psicologicamente troppo oneroso a quei cittadini appartenenti a comunità religiose. Ma in un sistema di rappresentanza politica, a una divisione funzionale delle sfere pubbliche deliberative corrisponde un diverso “onere giustificativo” delle ragioni che si adottano. Se nell’ambito pubblico informale i cittadini, in quanto sostenitori di particolari visioni del mondo, sono legittimi depositari delle rispettive comunità solidali di appartenenza, nell’ambito pubblico istituzionale i rappresentanti politici sono vincolati al corpo elettorale in quanto tale. In altre parole, lo stesso requisito di ragionevolezza pubblica istituzionale implica che le giustificazioni a supporto di particolari decisioni non debbano privilegiare un corpo elettivo rispetto a un altro, favorendo così una “dittatura della maggioranza”; al contrario, attraverso vincoli pubblici di dibattito la ragionevolezza pubblica pretende un consenso razionalmente motivabile da parte anche della stessa minoranza in disaccordo. In tale contesto, i cittadini riconoscono nella neutralità delle motivazioni politiche a sostegno di decisioni specifiche la garanzia della stessa virtuale sopravvivenza delle proprie ragioni onnicomprensive nella sfera pubblica informale. La percezione della ragionevolezza di decisioni adottate “secondo giusti principi”, anche qualora queste non favorissero la possibilità di una ritraduzione “onnicomprensiva”, stimolerebbe un processo di riformulazione delle proprie posizioni in ragioni virtualmente accettabili da parte di ciascuno, ovvero di punti di vista radicati in contesti filosofico-religiosi specifici. L’attività di partecipazione al processo democratico è così garantita dalla stessa conformità al principio di ragionevolezza pubblica delle decisioni adottate a livello politico istituzionale; ai cittadini infatti viene lasciata aperta la possibilità di sottoporre pubblicamente istanze di revisione di decisioni già adottate. Attraverso un dibattito aperto alle istanze più propriamente onnicomprensive della sfera pubblica informale, nuove maggioranze politiche possono prender forma; la possibilità di raccogliere un consenso sempre più ampio su una vertenza inizialmente minoritaria costringe gli stessi promotori ad articolare in modo sempre più autonomo – o per dirla con Ralws in modo «free-standing» – le ragioni a supporto di una particolare forma di revisione. Tale processo di astrazione fa sì che il peso giustificativo di ragioni propriamente onnicomprensive venga progressivamente alleggerito e trasferito a forme di razionalità cognitivamente diverse, ovvero a ragioni massimamente inclusive deprivate di connotazioni specifiche di gruppo. Solo così è possibile per comunità filosofico-religiose particolari guadagnarsi il consenso di un numero sempre più ampio di cittadini.

[…]. Le osservazioni di Lelio Basso assumono un significato del tutto particolare. Il problema non consiste nel risolvere attraverso patti giuridicamente vincolanti il rapporto tra Stato e Chiesa, bensì nel favorire il fiorire di argomentazioni pubblicamente valide che scaturiscano dalle più svariate visioni del mondo. I cittadini, proprio in virtù delle rispettive differenze di credenze, devono vedersi garantita la possibilità di accesso alla sfera pubblica sulla base del riconoscimento di diritti costituzionali di pari dignità ed eguaglianza che vincolano il dibattito pubblico a ragioni universalmente accettabili da parte di ciascuno. Imbrigliare la dialettica discorsiva tra le parti in competizione all’interno di una logica di spartizione di privilegi, vuol dire frustrare la stessa possibilità di autoaffermazione della ragionevolezza pubblica. La società post-secolare, ovvero quella forma di società capace di comprendere la validità delle ragioni che si originano da forme di vita onnicomprensive, tende a stabilire una priorità dei diritti costituzionali fondamentali su ogni possibile forma di accordo secondo modus vivendi. La priorità dei vincoli pubblici di diritto favorisce l’ascesa di modelli in competizione che mirano a una forma di riconoscimento e di validità universale. È dal dibattito regolato da procedure democratiche, dunque, che si stabilisce l’onere della validità e dell’accettabilità di ogni singola proposta avanzata, dibattito che nel garantire la priorità dei diritti costituzionali su ogni forma di accordo strumentale tra le parti, subordina a sé, ovvero al raggiungimento di una deliberazione secondo giusti principi, la possibilità di un’imposizione parziale di qualsiasi visione comprensiva del Bene.

Basso ha avuto il merito di cogliere l’importanza della questione del pluralismo nelle democrazie moderne, e ancor di più di suggerire una soluzione che lungi dall’avanzare schemi di spartizione di potere e di competenze, ha favorito la crescita di una cultura civica multiforme in grado di rispettare le regole fondamentali di un confronto ampiamente democratico. Benché nello scenario politico attuale ci si riferisca spesso alle ragioni dei laici o ancor più spesso dei cattolici, l’errore persistente resta quello di un utilizzo strumentale, da ambo le parti, di visioni comprensive proiettate nell’ambito delle istituzioni pubbliche. Il consenso politico non può e non deve essere guadagnato attraverso un gioco al ribasso di ragioni interessate, ma deve piuttosto innalzarsi alla ricerca di ragioni orientate all’intesa che possano risultare, se non pienamente convincenti, almeno accettabili alle minoranze in competizione.

 
[1] La biografia di Basso è stata recentemente proposta in due libri: C. Giorgi, Un socialista del Novecento. Uguglianza, libertà e diritti nel percorso di Lelio Basso, Carocci, Roma 2015 e G. Monina, Lelio Basso, leader globale. Un socialista nel secondo Novecento, Carocci, Roma 2016.

[2] L. Basso, Una società di maggiorenni, in “Il Mondo”, 30 aprile 1957.

[3] L. Basso, Discorsi parlamentari, Senato della repubblica, Roma 1988, pp. 900-909.

[4] In G. Monina (a cura di), Novecento contemporaneo. Studi su Lelio Basso, Ediesse, Roma 2009, pp. 183-195.

[5] J. Rawls, Liberalismo Politico, a cura di S. Veca, Edizioni di Comunità, Milano 1994, p. 217.

[6] J. Habermas, Tra scienza e fede, Laterza, Roma-Bari 2006, pp. 19-52.

[7] Ivi, p. 30.

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