Massimo Cacciari e Paolo Prodi, "Occidente senza utopie" - Confronti
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Massimo Cacciari e Paolo Prodi, “Occidente senza utopie”

by redazione

Massimo Cacciari – Paolo Prodi

OCCIDENTE SENZA UTOPIE

Il Mulino 2016

pagine 144, Euro 14,00

recensione a cura di Bruno Liverani

È passato quasi un secolo da quando Osvald Spengler annunciò il declino irreversibile della civiltà occidentale in un’opera divenuta epocale (Der Untergang des Abendlandes, “Il Tramonto dell’Occidente”, Vienna-Monaco 1918-23). Da allora, soprattutto negli ultimi tempi, si sono moltiplicati gli epicedi sull’occidente, sui quali si elevano per ampiezza di visione e originalità di approccio i due saggi dello storico Paolo Prodi e del filosofo Massimo Cacciari, raccolti nel piccolo ma assai impegnativo libro Occidente senza utopie (Il Mulino, 2016).

Apre il libro il saggio di Paolo Prodi (Profezia, utopia, democrazia), pubblicato pochi mesi prima della sua morte, avvenuta nel dicembre 2016.

Prodi muove da lontano, dalle origini di Israele, citando un testo singolare del Libro dei Numeri (11,25-29):

Allora il Signore scese dalla nube e parlò a Mosè: tolse parte dello spirito che era su di lui e lo pose sopra i sessanta uomini anziani; quando lo spirito si fu posato su di loro, quelli profetizzarono, ma non lo fecero più in seguito. Ma erano rimasti due uomini nell’accampamento, uno chiamato Eldad e l’altro Medad. E lo spirito si posò su di loro; erano tra gli iscritti, ma non erano usciti per andare alla tenda. Si misero a profetizzare nell’accampamento. Un giovane corse ad annunciarlo a Mosé e disse “Eldad e Medad profetizzano nell’accampamento”. Giosuè, figlio di Num, servitore di Mosè fin dalla sua adolescenza, prese la parola e disse “Mosè, mio signore, impediscili.” Ma Mosè gli disse: “Sei tu geloso per me? Fossero tutti profeti nel popolo del Signore e volesse porre su di loro il suo spirito!”

Nel fatto che due individui si mettano a profetizzare liberamente senza autorizzazione dell’istituzione, e anzi legittimati in questo da Mosè, Prodi individua l’eccezionale novità che Israele introduce nella storia: “la libertà di espressione, all’interno di un gruppo sociale in cui il governo politico-sacerdotale ha il monopolio del potere, nasce proprio con la profezia, quando la parola pronunciata da un dio che non ha nome (il dio dell’Antico Testamento) non si identifica con l’identità collettiva dominante e con la legge positiva dei governanti, ma si esprime potenzialmente mediante tutti i membri del gruppo, anche se non risiedono nei palazzi e nei templi. Questa è la radice della democrazia attuale, anche se la strada per le soluzioni tecniche sino all’invenzione della rappresentanza parlamentare elettiva è stata ancora lunga e faticosa negli scorsi due millenni” (pp. 16-17).

La profezia è dunque sommo esercizio di libertà, parola aperta, che non sopporta censure né edulcorazioni. Non è improprio richiamare qui il concetto greco di parrhesìa – vocabolo derivante dalla combinazione di pan = tutto e rhema = detto, discorso – che significa dire tutto apertamente, senza censure: “diritto/dovere di dire la verità nella pòlis greca di fronte al popolo, al démos: diritto-dovere da cui dipendono la possibilità e la libertà di parlare pubblicamente il linguaggio della verità come espressione della propria soggettività” (p. 15).

Nell’Antico Testamento la profezia “rappresenta sostanzialmente la contestazione del potere regale e sacerdotale dominante da parte di un personaggio escluso o esterno – diremmo oggi – al sistema, che sa leggere i segni dei tempi al di là degli interessi consolidati e rappresenta la voce di Dio per la condanna dell’ingiustizia e la proclamazione di un cammino di redenzione…” (p. 17). Ma con il sorgere della monarchia e lo svilupparsi di un potente ceto sacerdotale “la profezia, entrando nelle stanze del potere, si corrompe e il profeta si smarrisce , imputridisce” (p. 18).

Con la predicazione del Vangelo la profezia non scompare, ma “si incarna nella Chiesa come comunità dei fedeli , non soltanto prendendo le distanze dal potere politico (‘date a Cesare…’) ma strutturandosi in una istituzione distinta dal potere: la profezia è proposta non solo come voce di un individuo ma come struttura collettiva, sociale e culturale”. Rifacendosi alla prima lettere di san Paolo ai Corinti (14,1-5 e 29-33), Prodi prosegue: “La profezia va esercitata all’interno dell’assemblea e diviene prassi e struttura collettiva (…) Il principio fondamentale è che la Chiesa è una comunità storica che, voluta da Cristo, si è sviluppata come istituzione innestando nella storia un dualismo prima sconosciuto tra il potere politico e il potere sacro nell’impero romano” (pp. 18-19).

Nel corso dei secoli il “profeta collettivo” diluisce fino ad esaurire la propria funzione. Un colpo fatale è inferto dal grande scisma, dalla divisione/contrapposizione tra una Chiesa occidentale e una orientale. In realtà “lo scisma non è tra le due Chiese, ma nel rifiuto stesso della Chiesa come profezia istituzionalizzata distinta dal potere politico: al di fuori della tenda del potere imperiale, come nel discorso di Mosè riportato sopra. Nel mondo ortodosso la Chiesa è incorporata all’impero (…) l’identità tra il potere politico e quello religioso sembra rimasta altrettanto forte sia con gli zar che con i soviet e con la Russia attuale di Putin” (pp. 22-23).

Tuttavia anche nell’occidente il “profeta collettivo” subisce un’evoluzione, diventando sempre più un potere contrapposto a un altro potere. Un momento nevralgico è individuato nell’XI secolo, “quando con Gregorio VII il dualismo originario diviene un dualismo istituzionale e l’appartenenza plurima si trasforma in una tensione aperta che mette in fibrillazione continua tutta la società europea” (p. 23). È allora che “la profezia viene sospinta ai margini della vita della Chiesa, fuori dal tempo della storia, nell’attesa dell’Anticristo e della seconda venuta di Cristo, ingoiata dall’apocalisse: la figura del profeta coincide nel medioevo totalmente con la figura dell’eretico in quanto contesta lo stesso potere della Chiesa, non soltanto gerarchico e politico ma anche sacrale e sacramentale. (…) Proporzionalmente alla crescita del potere politico della Chiesa d’Occidente (…) il profetismo tende a rifugiarsi nel monachesimo eremitico o a trasformarsi in opposizione eretica e soprattutto in millenarismo che (…) crea un’ideologia che predice e invoca un rinnovamento della società e della Chiesa” (pp. 24-25). In tale contesto “il problema centrale diventa ancora una volta quello dell’obbedienza alle istituzioni”.

Nel frattempo, ormai alle soglie della modernità, il vecchio ordine feudale è sempre più investito dalla concorrenza con le nuove statualità (stati regionali, città, signorie, monarchie…), la politica si trasforma “da esercizio della giurisdizione e amministrazione della giustizia a strumento di formazione e di modellazione della vita dell’uomo dalla nascita alla morte”. Con la Riforma questo processo si accentua: mentre nei territori cattolici esso sconta ambiguità e compromessi, in quelli protestanti “la cura religionis diventa una delle funzioni fondamentali della nuova sovranità mentre il cuius regio eius et religio diventa il fattore principale di costituzione dell’identità collettiva in questa fase iniziale della gestazione dello Stato moderno” (p. 26).

Nei decenni cavallo tra ‘400 e ‘500 (tra la predicazione di Savonarola e la prima ediziona dell’Utopia di Tommaso Moro) è individuata l’epoca cruciale nella quale si consuma la trasformazione della profezia in progetto politico, proprio mentre nel contempo Niccolò Macchiavelli delinea per primo “le nuove forme che il potere stava assumendo nella dissoluzione delle società cristiana medioevale. L’utopia può nascere soltanto quando, con il passaggio alla modernità, si afferma il concetto di mutamento e si affaccia la possibilità di progettare una società alternativa a quella dominante e di lottare per la sua trasformazione in realtà” (p. 27).

Nell’età moderna “il duopolio tra potere politico e potere religioso tende a raggiungere il massimo di espansione, pur nella concorrenza, per il controllo dei comportamenti umani, con il soffocamento di ogni ‘voce’ pubblica di dissenso” (p. 29). Coloro che ancora rimangono ancorati al mondo di Moro e di Erasmo finiscono sempre più esclusi da ogni influsso sulla società, quando non vengono perseguitati, cacciati e in taluni casi martirizzati, invisi a tutti i detentori del potere e a tutte le confessioni.

Nel delineare gli sviluppi successivi, Prodi enuncia e articola il punto chiave della sua analisi: “La politica moderna non nasce dalla secolarizzazione del pensiero teologico ma dall’incontro dialettico tra due poli, quello religioso e quello politico, con un processo di lotta ma anche di osmosi per il q       uale la Chiesa tende a politicizzarsi (il punto massimo di questo processo è la monarchia papale dell’età moderna) e lo Stato tende ad assumere le funzioni prima riservate alla Chiesa, di formazione e modellamento del cittadino suddito, dalla nascita alla morte, modellamento che sfocerà poi nella religione della patria” (p. 31). In questo andamento delle cose non v’è più spazio per profezia e parrhesìa: “sono espulse da tutti gli accampamenti le voci che non hanno un timbro ufficiale da parte delle autorità riconosciute anche se in concorrenza tra di loro” (pp. 35-36).

Questa osmosi tra il mondo delle chiese e quello della politica – come descrive Prodi in un seducente affresco dell’età moderna – attraversa le rivoluzioni del secolo XVIII nelle quali si sviluppa una vera e propria religione civile in concorrenza/contaminazione con quella della Chiesa, fino all’avvento nel secolo XX di religioni politiche totalitarie.

Oggi ci troviamo di fronte a un cambiamento radicale, nel quale “i contenitori forniti dagli Stati e dalle Chiese territoriali sembrano non essere più in grado di contenere la società che li produce (…) siamo davanti a un grande processo di omogeneizzazione in cui è l’anima stessa dell’Occidente a essere rimessa in causa: stanno venendo meno i punti di riferimento alternativi rispetto ai grandi poteri degli imperi e del capitalismo internazionale che si vanno fondendo in un monopolio unico politico-economico: non c’è altro spazio nell’accampamento. Forse è questo che sta portando da una parte l’Occidente al suicidio per la mancanza di un respiro tra la coscienza e la legge e dall’altra il monoteismo islamico alla ribellione” (p. 47).

Oggi il dualismo tra il potere politico e il sacro non può più essere espresso in termini di rapporto tra Stato e Chiesa: Prodi è consapevole di dire quasi una bestemmia quando afferma che il principio cavourriano “libera Chiesa in libero Stato” non ha più alcun senso, perché “i problemi nati con il multiculturalismo e i nuovi fondamentalismi suppongono la fuoriuscita non soltanto dall’alveo costituzionale degli ultimi secoli, ma anche dalle radici del dualismo istituzionale Stato-Chiesa” che questo alveo aveva prodotto a partire dal medioevo” (p. 48).

In fondo, lo stesso Concilio Vaticano II appartiene ancora all’evo ormai esaurito della modernità, quello degli Stati e delle Chiese (p. 50). Certo, nel Vaticano II “si comprendeva che questo ciclo si avviava alla fine, ma senza una coscienza del nuovo che stava arrivando, pur percepito nei tremiti e nelle paure di Paolo VI” (p. 49). Lo stesso paradigma del superamento della “Chiesa costantiniana” non coglieva l’avvento dei tempi nuovi: “se da un punto di vista teologico può essere stata utile l’elaborazione del concetto di ‘età costantiniana’ per affrontare le teologie politiche del XX secolo, dal punto di vista ecclesiologico e storiografico questa si è tradotta in una strumentalizzazione come se per la Chiesa bastasse uscire dall’età costantiniana, ripudiare il compromesso con un potere esterno, per ritrovare la purezza evangelica senza affrontare il problema del suo essere società umana (…) Questa visione mi sembra abbia giovato in fondo alle tesi dei tradizionalisti più conservatori che hanno denunciato in queste nuove tendenze (teologie della liberazione, ambientaliste, ecc.) il pericolo della trasformazione del cristianesimo in ideologia” (pp. 50-51).

Per la Chiesa si tratta allora di passare oltre quella fase che ha contraddistinto la modernità: “l’intreccio-scontro con la politica e l’economia che ha connaturato la vita della Chiesa lungo i secoli deve essere declinato storicamente anche per comprendere i nuovi luoghi del potere che si stanno formando nella società globalizzata, luoghi che sono del tutto mutati nell’ultimo cinquantennio e con i quali la Chiesa ha a che fare” (p. 51).

Nel frattempo sembra avvenuto qualcosa di nuovo, che riapre la speranza in un ritorno della profezia: l’avvento di papa Francesco. Certo, tre anni in una svolta epocale sono troppo pochi per azzardare un giudizio storico; e tuttavia “si può dire che non ci troviamo soltanto di fronte alla presa di coscienza di un rapporto centro-periferia ma a una rappresentazione nuova del brano che ho posto all’inizio di queste pagine: il papa-Mosè (a un tempo condottiero e profeta) che viene connotato lui stesso ogni giorno sempre più come ‘profeta’ lascia che nell’accampamento si torni a profetizzare” (p. 50). Del resto, in più d’un’occasione papa Bergoglio ha invocato la pratica del “parlare franco”, dunque della parrhesìa. Soprattutto – sottolinea Prodi concludendo – “nel rapporto profezia-istituzione vi sono mutamenti che si sono introdotti in modo quasi sotterraneo (…) destinati a mutare radicalmente il governo delle Chiese”. L’autore cita al volo il moltiplicarsi di espressioni collettive che non hanno ormai nulla a che spartire con il mondo della modernità.

Papa Bergoglio è l’uomo giusto per orientare questo cambiamento? Prodi sembra crederlo: “Si è detto e scritto che questo è un papa venuto dalla fine del mondo (finis terrae), dalla periferia;[1] forse è proprio l’opposto: tutto si sta spostando e non vi è più un rapporto centro-periferia secondo lo schema ereditato dall’impero romano come fondamento del primato del vescovo di Roma per garantire l’unità della Chiesa me sta nascendo qualcosa di nuovo, un nuovo rapporto tra profezia e istituzione” (pp. 53-54).

Il panorama storico delineato da Prodi, oltre che affascinante, è straordinariamente ricco di stimoli ad approfondire l’analisi sul rapporto tra le istituzioni del sacro (le chiese…) e l’universo della politica. Ciò detto, non posso nascondere alcune perplessità, a partire dal concetto chiave che percorre tutto il testo: la “fondazione da parte di Cristo della Chiesa come profezia istituzionalizzata nell’assemblea dei membri”. A parte l’audace ossimoro insito nell’espressione “profezia istituzionalizzata”, questa idea di una fondazione diretta, con quei connotati, da parte di Gesù mi pare difficilmente compatibile con la corrente e consolidata analisi storico-critica delle fonti neotestamentarie. Guardando alla storia delle Chiese cristiane, mi pare una idealizzazione suggestiva ma poco rispondente alla realtà.

Quanto alle considerazioni sull’esito infelice dei movimenti di base contro la “Chiesa costantiniana”, che avrebbero fornito armi proprio alla controparte conservatrice, oltre che essere ingenerose non rendono conto dell’enorme mobilitazione culturale suscitata non solo nella Chiesa e, tra l’altro, non vedono che questi movimenti – magari tra eccessi, ingenuità, degenerazioni ideologiche… – in fondo non avevano altro senso se non quello di recuperare alla comunità ecclesiale proprio quella funzione profetica, quella capacità di parrhesìa, di discorso franco di fronte ai potenti, che Prodi attribuisce alla chiesa-comunità.

In margine a questo aspetto, non mi pare condivisibile l’idea che la problematica della laicità dei rapporti Chiesa-Stato sia storicamente obsoleta rispetto ai cambiamenti epocali della nostra epoca, tutt’altro: i problemi che chiamano in causa la laicità della politica in uno Stato democratico, soprattutto in tema di diritti delle persone, mi sembra che si vadano moltiplicando anziché scomparire dall’orizzonte della storia, perlomeno nelle società dell’Occidente. Proprio il moltiplicarsi dei conflitti, talvolta di inaudita asprezza, in tale ambito mi pare la spia che la rinascita della profezia nella Chiesa è di là da venire.

Infine papa Francesco: ho difficoltà a condividere la speranza di un risveglio profetico sotto la guida di questo papa “novello Mosè, condottiero e profeta”. Taluni indizi mi rendono diffidente verso questa figura, che mi pare di straordinaria ambiguità: ma sarei felice di essere smentito dai fatti. Oltre tutto mi chiedo se non vi sia una contraddizione tra la funzione intrinsecamente “critica” della profezia, come l’ha descritta Prodi, e la speranza di una sua rinascita dall’alto, da una autorità che dovrebbe essere più bersaglio che fonte del discorso franco profetico, della parrhesìa.

Se qualche spiraglio di rianimazione Paolo Prodi concede alla profezia come funzione della comunità ecclesiale (papa Francesco permettendo), il de profundis che intona Massimo Cacciari sull’utopia è senza speranza. Il suo saggio Grandezza e tramonto dell’utopia ci offre una mirabile ricostruzione della storia e soprattutto del senso che ha avuto l’utopia ai primi passi della modernità. La guida per capire cos’è in effetti l’utopia Cacciari la trae dai tre maggiori utopisti che giganteggiano alle origini della nostra modernità: Tommaso Moro, Tommaso Campanella, Francesco Bacone.

Per costoro utopia non significa sogno, mito delle origini, vagheggiamento di mondi ideali ma irreali, bensì un orizzonte possibile fondato sulle potenzialità del presente. Per Moro e Bacone non si tratta di fondare repubbliche ideali/irreali (Utopia per l’uno, Nuova Atlantide per l’altro) bensì di elaborare idee regolative, o meglio, di istituire paradigmi (…) irreali le utopie? Nient’affatto. Pensate come possibili orizzonti di processi storici concreti. Astrattamente separate dalla realtà effettuale? No; maturate dalla sua osservazione e strettamente connesse a fattori e soggetti che ne innervano lo sviluppo. Esse funzionano per questo da paradigmi effettuali, decisivi fattori del processo che pensano determinabile ed esortano a determinare” (p. 64).

L’utopia differisce dall’ideologia, che “sempre si ammanta” di realismo, “pretende” di presentarsi come obiettiva; semmai l’utopia “gioca sul paradosso e spesso sull’ironia (…) indaga disincantata sulla realtà presente e la sua stessa paradossalità manifesta appieno l’esigenza di una drastica decisione da quest’ultima” (pp. 64-65)

L’utopia differisce radicalmente anche dalla profezia. La parola del profeta “non è propriamente né previsione, né predizione, ma affermazione qui-e-ora, en parrhesìa, di ciò che ha udito dal suo unico Signore, e che questi gli ha imposto di ripetere dinanzi al popolo dalla dura cervice (perciò, appunto, pro-fezia) (…) L’utopia moderna si presenta, invece, come costruzione razionale (…) che mai presuppone un irrompere del divino nella storia, tale da determinare una discontinuità assoluta (…) L’utopia è essenzialmente l’idea di un evolversi della storia verso un futuro se non precisamente calcolabile, certo paradigmaticamente valido, nella sua immagine, a orientare l’agire presente. Futuro che l’uomo è capace di perseguire e raggiungere obbedendo sostanzialmente a null’altro che alla propria ragione e alla propria natura” (p. 66).

Da Tomaso Moro a Campanella a Bacone, l’utopia prefigura un mondo non ancora realizzato, ma realizzabile muovendo dalle potenzialità esistenti, retto dai seguenti pilastri: il lavoro produttivo esercitato responsabilmente da tutti, e come tale fonte di uguaglianza, che non tollera più l’esistenza di parassiti che campano del lavoro degli altri; un lavoro produttivo non lasciato a sé stesso, ma guidato da un ordinamento retto dalla progettualità scientifica e dallo sviluppo tecnico che ne consegue; un regime di libertà del pensiero, senza il quale non sarebbe possibile un vero sviluppo della scienza e della tecnica. “I princìpi che reggono questa grande macchina sono quelli della tolleranza e della libertas philosophandi. Essi soltanto garantiscono il pieno sviluppo delle attività dei ricerca, di scoperta, di invenzione, e cioè il primato del dispositivo tecnico-scientifico su ogni altro aspetto della realtà sociale” (p. 99).

Cacciari accompagna poi il poco fortunato cammino dell’utopia fino ai nostri giorni, passando per le grandi proiezioni sul futuro dei “cantori” della realtà scientifico-tecnica-industriale dell’800 (Saint Simon, Comte, Renan) o degli utopisti sociali (Fourier, Proudhon). Ora, “quale forma istituzionale e politica può essere immaginata e definita in coerenza al fine o al destino delle forze produttive? Prometeo scatenato o liberato? La prospettiva della forma utopica è senz’altro la seconda, ma la soglia tra le due sembra farsi radicalmente trasgredibile. Le utopie ottocentesche sono ai ferri corti con un Prometeo sempre più insofferente di ogni ordine ‘utopico’. E proprio su questo farà leva l’impietoso realismo della critica marxiana” (pp. 98-99).

Già il marxismo, che dà l’ultimo colpo di grazio alla prospettiva utopica. Perché non c’è più un futuro desiderabile le cui potenzialità sono già presenti nel mondo attuale, ma solo un soggetto storico concreto, la classe operaia, che nei fatti, nel concreto svolgersi della storia, opera il ribaltamento rivoluzionario. Il paradigma utopico della futura società “finisce con l’apparire astratto nell’epoca della ‘grande trasformazione’. Marx non fa che descriverne la crisi. Da autentico paradigma esso rischia di trasformarsi in ideologia, in occultamento di contraddizioni reali, di cui si è incapaci di fornire analisi scientifiche e tantomeno soluzioni” (p. 102). Non porta ossigeno all’utopia il tentativo del marxista atipico Ernst Bloch, concentrato sul concetto di speranza aprendo a una dimensione che si potrebbe dire “profetica”, contestato da un lato dal marxista rigoroso György Lucács, che lo richiama aspramente alla realtà materiale-storica del concreto soggetto sociale unico vero portatore del cambiamento verso la società futura, dall’altro da filosofi dell’ebraismo come Gershon Scholem e Franz Rosenzweig, per i quali l’oggetto della speranza, “l’irrompere del divino nella storia, di cui l’età messianica è il sigillo, è puro evento, in nessun modo prevedibile né anticipabile” (p. 111).

Alla fine, senza più un orizzonte utopico, la stessa rivoluzione “implode all’interno della sua stessa idea (…) Nessun pensiero più si presenta nella gabbia di acciaio globalizzata con l’energia del pensiero critico e utopico, delle dialettiche negatrice che abbiamo – energia che si esprime nelle loro stesse, insuperabili aporie (…) La stagione del confronto creativo tra scienza e utopia si chiude col Sessantotto” (pp. 127-128).

A questo punto, quando “il fine si riduce all’infinito procedere del presente e i conflitti al suo interno, anche i più tragici, non appaiono più riconducibili a un orizzonte” (p. 128), ecco sorgere  la domanda: quid nun? Che potremmo tradurre: e adesso? Domanda – dice Cacciari – assai più modesta del “che fare?”.

Come modesta – ma solo in apparenza – appare la conclusione: “Mettere ordine nel linguaggio, ricondurlo a sobrietà e modestia, ad autocoscienza dei suoi limiti – questo sembra restare. ‘Autonomia’ del Politico, da un lato, nel senso che nessun dia-logo esso è in grado di reggere con il linguaggio, le immagini e le figure in cui si è cercato di far segno alle idee di redenzione, salvezza o verità. E, dall’altro, rendere pura l’attesa di Dio, eliminare ogni impazienza da essa, ogni esigente richiesta, ab-solverla dalla civitas hominis, e soprattutto dalle gnosi che la abitano. Insomma: negare ogni teologia politica, superare l’età della secolarizzazione, che è sempre secolarizzazione di idee teologiche”.

[1] Sarò irriverente, ma non resisto alla tentazione di citare “Ah Sudamerica” di Paolo Conte:

                L’uomo ch’è venuto da lontano

                Ha la geniatlità di uno Schiaffino

                Ma religiosamente tocca il pane

                E guarda le sue stelle uruguayane

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