di Patrizia Larese
Sul volo per Corfù due giovani sposi, seduti accanto a me, mi raccontano che stanno tornando a casa dopo aver trascorso alcuni giorni a Roma. Sono molto contenti della vacanza e della loro situazione. Si ritengono fortunati in un periodo difficile come l’attuale. Entrambi hanno un lavoro: lei è tecnico in una piccola impresa, lui cassiere in un supermercato. Si considerano dei privilegiati rispetto ai loro coetanei, hanno avuto la possibilità di questa breve vacanza a Roma però, nonostante i sorrisi, sento nelle loro parole un senso di insicurezza perché, spiegano, vedono un futuro incerto e molto instabile. Quando chiedo la loro opinione sul governo Tsipras rispondono che non sanno cosa pensare e che attendono quello che succederà a breve.
Dialogando con altre persone, ho l’impressione di trovarmi di fronte ad un popolo stanco e rassegnato. La gente intervistata riferisce di sentirsi vessata da anni da una politica di austerità che li ha costretti in ginocchio e che ha ridotto molti di loro in miseria. Il numero dei cittadini sotto la soglia della povertà, cioè con reddito inferiore ai 5mila euro l’anno, è calcolato sui tre milioni di persone (su una popolazione di circa 11 milioni di individui).
austerità
di Giulio Marcon
Da troppo tempo si discute dell’anacronismo e dell’insostenibilità dei parametri del Patto di stabilità e ora del fiscal compact, che stanno distruggendo il welfare ed i diritti sociali. Potremmo fare l’antologia di tutte le dichiarazioni di ex presidenti del Consiglio, di ex ministri dell’Economia e delle Finanze, di ex presidenti della Commissione europea e del Parlamento europeo che definiscono senza senso, arbitrari, stupidi e insostenibili questi parametri. Anche l’attuale presidente del Consiglio ha definito anacronistici questi parametri, eppure si continua come sempre in una politica suicida che alimenta la disoccupazione e la depressione economica della produzione. È questa una politica economica che pensa non ci sia bisogno del welfare perché ci pensa la filantropia, che pensa non ci sia bisogno di politica industriale perché intanto ci pensa il mercato. E che pensa che non ci sia bisogno di una politica del lavoro perché basta la liberalizzazione del mercato del lavoro. È questa una politica economica che pensa che la causa della crisi sia quella del debito pubblico, ma non si accorge che sono i mercati finanziari che nel 2007 hanno originato questa crisi. In questi anni, invece di fare il «contropelo» ai mercati finanziari, gli abbiamo «lisciato il pelo».