di Michele Lipori
Negli ultimi giorni si è molto parlato, a ragione, del senso di far uscire il Mein Kampf di Adolf Hitler in edicola. Il dibattito scaturito ha visto fronteggiarsi chi era contrario all’operazione, giudicando la pubblicazione del libro «pericolosa di per sé» e chi era favorevole «in nome della libertà di opinione» e della diffusione del volume al pari di una qualsiasi altra produzione culturale. Proprio qui sta – a nostro avviso – il nodo della questione, ma analizziamo prima il contenuto dell’inserto.
Allegato al quotidiano c’era infatti una ristampa anastatica della terza edizione italiana del libro, uscita nel 1937 (quindi in piena epoca fascista) in un’edizione volutamente ridotta, poiché, si affermava nell’introduzione del tempo: «Un volume di tanta mole non è idoneo a quella vasta diffusione che merita (corsivo nostro) un’opera esponente il pensiero e lo spirito che informano la Germania moderna».
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di Adriano Gizzi
Riconosce la sconfitta alle amministrative, ma come ricetta propone di mantenere la rotta che per molti è proprio la causa della crisi del Pd.
di Adriano Gizzi
A ottobre gli italiani saranno chiamati a pronunciarsi su un referendum costituzionale di cui molti ignorano i contenuti. Come previsto – e voluto dallo stesso Renzi – l’appuntamento si trasformerà in un plebiscito pro o contro il governo.
In una domenica di ottobre, molto probabilmente il 16, gli elettori italiani verranno separati nettamente in due, neanche fossero le acque del Mar Rosso: da una parte quelli che ritengono Matteo Renzi il più grande statista di tutti i tempi (e la sua riforma costituzionale, approvata il 12 aprile scorso, la soluzione ai problemi del paese) e dall’altra parte coloro che vedono nel premier un ducetto che vuole stravolgere e ridurre a carta straccia «la Costituzione più bella del mondo». Delle due l’una, tertium non datur. Ma probabilmente la maggior parte delle persone andranno alle urne per il referendum costituzionale senza aver letto neanche una riga del ddl Boschi e decideranno cosa votare esclusivamente sulla base delle simpatie o antipatie politiche. Non è un caso se la quasi totalità del Partito democratico è mobilitata a favore, con migliaia di comitati per il Sì, e tutte le forze di opposizione sono schierate per il No.
intervista a Carlo Fusaro (professore ordinario di Diritto pubblico comparato all’Università di Firenze), a cura di Adriano Gizzi
Quali sono a suo giudizio i principali vantaggi di questa riforma costituzionale?
«Questa riforma affronta (e secondo me con ogni probabilità risolve) alcuni dei maggiori problemi della Parte seconda della Costituzione: dei quali in effetti si discute da oltre trent’anni e sull’esistenza dei quali quasi tutti concordano. Si tratta del superamento del bicameralismo fondato su due camere quasi gemelle che fanno le stesse cose e rappresentano tutt’e due i cittadini politicamente organizzati. Il cosiddetto “bicameralismo paritario e indifferenziato”. A dire il vero una differenza c’è: e costituisce un serio problema democratico. Il Senato non è eletto dai cittadini fra i 18 e i 25 anni: quattro milioni. Non è poco. Inoltre la riforma affronta un problema più recente: il rendimento discusso della riforma del titolo V (Rapporti Stato-Autonomie) del 2001. Lo fa chiarendo la preminenza legislativa dello Stato: in compenso porta Regioni e Comuni dentro il nuovo Senato, in Parlamento».
intervista a Gianfranco Pasquino (professore emerito di Scienza politica dell’Università di Bologna)
a cura di Adriano Gizzi
Lei sostiene che la riforma del Senato peggiora l’esistente perché porta a un bicameralismo «sicuramente imperfetto e squilibrato». E, in alternativa, indica come esempio da seguire quello del Bundesrat tedesco. Quali sono gli elementi di questa riforma che non la convincono?
«La riforma del Senato nasce da due motivazioni: 1) accarezzare l’antipolitica riducendo il numero dei parlamentari e le relative nient’affatto ingenti “spese”; 2) togliere al Senato il potere di votare o no la fiducia al governo per ovviare all’inconveniente causato nelle elezioni del febbraio 2013 dalla legge elettorale (una maggioranza chiara alla Camera, frutto del premio di maggioranza, e una situazione di stallo al Senato, ndr). Sono motivazioni occasionali e deteriori che, infatti, non hanno nulla a che vedere con la creazione convinta e pensata di una Camera delle autonomie né con il miglior funzionamento del sistema politico».
di Luigi Sandri
Sta facendo molto discutere l’annuncio di papa Francesco della costituzione di una commissione che studi la questione del diaconato femminile. Due pareri a confronto. Querido Francisco, la proposta che hai fatto, il 12 maggio, incontrando ottocento suore della Unione delle superiori generali, provenienti da tutto il mondo, e cioè di istituire una commissione per studiare la questione del diaconato femminile permanente, ha provocato quasi ovunque grande eco. Partiamo, intanto, dalla composizione della commissione: chi ne farà parte? Donne e uomini, immagino; ma scelte e scelti come? Tra chi si è già pubblicamente espresso/a a favore delle tesi più liberal sui ministeri femminili, o tra chi si è espresso/a contro? Ipotizziamo poi che il gruppo, dopo un certo tempo – un anno? due? tre? – infine si limitasse a consegnarti due contrapposti punti di vista (uno liberal e uno a favore di soli cambiamenti di facciata). Stallo completo! Al contrario, se poi arrivasse a proporti ipotesi che scuotono alla radice l’impianto patriarcale e maschilista della Chiesa romana, puoi star certo che i cardinali Leon, Carli, McTimothy, Camilli, Angeli, Von Joachim, e centinaia di vescovi, si ergerebbero per contestare quel responso, negandogli ogni autorità/autorevolezza.
di Brunetto Salvarani (teologo, saggista, direttore di Qol)
Lo scorso 12 maggio, parlando all’Unione Internazionale delle Superiore Generali, a una domanda sulla creazione di figure diaconali al femminile, papa Francesco ha risposto di voler costituire una commissione che studi la questione. Tanto è bastato per rilanciare non solo l’idea di ordinare delle donne in una Chiesa che, com’è noto, non le ammette a divenire presbitere, ma anche per rilanciare un dibattito sul loro ruolo complessivo: lo stesso Bergoglio, nell’occasione, ha ammesso che in ambito ecclesiale «è molto debole l’inserimento delle donne nei processi decisionali».
L’intervento è passato nell’opinione pubblica per il tema donne e diaconato: il che, ha evidenziato la presidentessa del Coordinamento teologhe italiane, Cristina Simonelli, mostra che i tanti rifiuti a discutere l’argomento nel mezzo secolo che ci separa dal Vaticano II non sono per nulla condivisi nella comunità ecclesiale. Non solo dalle donne, consacrate o no, ma anche da molti uomini.
Per ricordare la figura di Marco Pannella, vi riproponiamo una sua intervista raccolta da Gian Mario Gillio nel corso di un lungo sciopero della fame e della sete del leader radicale sul tema delle carceri e della giustizia, ma non solo, pubblicata su Confronti di giugno 2011.
Quali sono i motivi che la spingono a un nuovo sciopero della fame e della sete?
Innanzitutto vorrei partire da alcune premesse. Nel 1978, per paura della nostra campagna e dei referendum che avevamo proposto, il Parlamento fece passare la legge 194 sull’aborto e noi radicali votammo contro per via dei suoi aspetti statalisti che prevedevano solamente la la sanità pubblica e obiettori di coscienza interni. Poi la chiusura dei ghetti manicomiali, sempre nello stesso anno. Anche in questo caso venne approvata una legge e votammo contro, ma non perché non l’approvassimo. Erano iniziative nostre, ma il Parlamento per evitare che si potessero approvare tramite referendum, preferiva farle approvare per legge modificandone però alcuni impianti per noi dirimenti.
di Bruna Iacopino
Via Cupa è una stradina minuscola a due passi dalla stazione Tiburtina, a Roma. Se guardi intorno tra la tangenziale, la stazione e l’immenso cimitero del Verano, quasi scompare, sommersa dal traffico caotico di una città che non dorme mai. Eppure si apre in un grande sorriso di fronte ad ogni straniero che incontra. Il sorriso è quello dei volontari del Baobab, gli stessi che lo scorso anno sono rimbalzati agli onori delle cronache per aver gestito in maniera autonoma ma efficace, contando sulla solidarietà di cittadini e associazioni, quella che stava assumendo i tratti di una vera e propria emergenza umanitaria: le migliaia di persone arrivate a Roma dopo un viaggio della speranza e accalcate ai margini della stazione Tiburtina nel tentativo di prendere un treno per approdare al Nord Europa.
intervista a Maysa Baransi e Mossi Raz
(a cura di Marco Magnano, redattore di Radio Beckwith evangelica – RBE)
Nei conflitti il ruolo dell’informazione è cruciale. Sia la popolazione israeliana sia quella palestinese ricevono notizie “di parte”, che danno un quadro parziale della situazione. Radio “All For Peace” tenta di colmare questa lacuna, offrendo ai suoi ascoltatori un’informazione il più possibile completa, sia in lingua ebraica che in arabo, dando voce sia a israeliani sia a palestinesi. Due sono anche le sedi, una a Gerusalemme e l’altra a Ramallah, e due i conduttori principali che animano le trasmissioni di questa emittente: un israeliano, Mozzi Raz, e una palestinese, Maysa Baransi. Li abbiamo intervistati per farci raccontare come si svolge il loro difficile lavoro.