di Mostafa El Ayoubi
Tra i tanti dossier scottanti che Obama lascerà in eredità a Trump c’è quello turco.
Medio Oriente
di Maurizio Ambrosini (docente di Sociologia delle migrazioni all’Università di Milano)
Una testimonianza dalla città di Erbil, nel Kurdistan iracheno, che vive una situazione difficile per l’alto numero di profughi provenienti dalla Siria e di sfollati interni.
di Franco Cardini (storico)
Le elezioni legislative di novembre hanno rafforzato la posizione di Erdogan. Consapevole dell’importanza geostrategica della Turchia per la Nato, il «sultano» manda segnali chiari all’Europa giocando la carta dei profughi e avverte la Russia – abbattendo un suo aereo militare – che Ankara difenderà i suoi interessi nel Medio Oriente.
Possiamo forse adesso cominciare a capire come sfrutterà Erdogan la sua prestigiosa vittoria nelle elezioni, ma da qui a sostenere che ci sono stati dei brogli, delle intimidazioni, delle violenze, ce ne corre. Anzi, diciamolo pure: a parte qualche caso particolare e qualche diceria, sostanzialmente non è vero. L’affluenza ai seggi è stata alta ma ordinata, com’è del resto nelle tradizioni turche. Gente abituata alla disciplina, e non da ieri, i turchi sono disciplinati perfino quando protestano. La Turchia si è espressa liberamente e a larga maggioranza: sta con Erdogan, ed è perfettamente inutile rispolverare la solita obiezione idiota che «anche Hitler andò al potere vincendo libere elezioni». Un paragone che non vuol dir nulla.
di Mostafa El Ayoubi
La Turchia è un Paese in concorrenza sia politico-militare sia religiosa con le altre potenze del Medio Oriente, in particolare Arabia Saudita e Iran. Con la prima, si trova in conflitto sulle questioni che riguardano un altro importante paese dell’area, l’Egitto: la Turchia sostiene i fratelli musulmani, defenestrati dal colpo di Stato del generale al-Sisi, mentre l’Arabia Saudita appoggia – anche economicamente – il governo dei militari. In Siria, invece, gli interessi della Turchia e dell’Arabia Saudita convergono. L’Iran resta comunque l’avversario più difficile.
La Turchia, per la sua storia e per la sua posizione geografica, è un attore politico di rilievo nello scacchiere geopolitico del mondo islamico, in quello arabo in particolare. Essa si contende oggi, con l’Arabia Saudita e l’Iran, il primato nella regione del Medio Oriente sia dal punto di vista politico-militare che da quello religioso.
Gesti insopportabili, come l’attentato – definito «atto eroico» da Hamas – di due palestinesi in una sinagoga di Gerusalemme, e decisioni programmatiche del governo Netanyahu, come il continuo espansionismo degli insediamenti nella Cisgiordania occupata, stroncano ogni possibile processo di pace. E, intanto, in Siria, in Iraq e in Libano la situazione si aggroviglia, e rischia di infiammare l’intero Medio Oriente.
Non si può che esprimere riprovazione e condanna assolute per il gesto di due giovani palestinesi che il 18 novembre, gridando Allah o akbar («Dio è il più grande»), sono entrati nella sinagoga Kehilat Bnei Torah, situata nella parte più occidentale di Gerusalemme, ed hanno ucciso quattro rabbini intenti alla preghiera, e poi un poliziotto, prima di essere a loro volta freddati. Con il loro gesto fanatico di profanare un luogo di culto, dando un carattere religioso alla loro azione, i due palestinesi ventenni di Gerusalemme-Est potrebbero innescare, da parte israeliana, reazioni a catena tali da incenerire ogni ipotetico processo di pace.
di Michele Lipori
La situazione del conflitto israelo-palestinese è riesplosa brutalmente. A giugno sono stati rapiti tre ragazzi israeliani e ritrovati barbaramente trucidati. All’inizio di luglio un ragazzo palestinese è stato trovato morto carbonizzato a Gerusalemme. Due atti criminali condannati senza se e senza ma da tutti coloro – tra cui la nostra rivista – i quali si battono per il dialogo e la pace tra israeliani e palestinesi. Lo scontro violento in atto tra le forze di sicurezza israeliane e i palestinesi scesi in piazza, in seguito a questa escalation, allontana ancor di più la speranza di una pace giusta e duratura. Questa situazione rende sempre più difficile l’impegno di chi si pone come facilitatore del dialogo tra i due popoli.
A giugno alcuni volontari della nostra rivista hanno preso parte al viaggio di approfondimento organizzato da Holy Land Trust nell’ambito del progetto «Beyond the wall», nel corso del quale hanno potuto incontrare organizzazioni – israeliane e palestinesi – impegnate nel dialogo e nella riconciliazione.
di Luigi Sandri
Nel suo viaggio in Terra santa (24-26 maggio) il vescovo di Roma ha incontrato il patriarca di Costantinopoli, Bartolomeo, e i leader giordani, israeliani e palestinesi, sempre invocando riconciliazione tra le Chiese, e pace e giustizia tra i popoli della regione. Le speranze accese, l’asprezza dei nodi irrisolti, le scelte profetiche.
Il vento del deserto inaridirà le parole appropriate, i silenzi gridanti ed i gesti intensi del pellegrinaggio di Francesco in Terra santa o, piuttosto, il soffio dello Spirito trasporterà questi semi nel terreno ove fioriranno, contribuendo così a favorire la riconciliazione tra le Chiese, il dialogo con ebrei e musulmani e, soprattutto, a porre fine al dramma della Siria e al conflitto israelo-palestinese? Dirà il prossimo futuro dei risultati del pellegrinaggio del vescovo di Roma in Terra santa che, dal 24 al 26 maggio, ad Amman, Betlemme e Gerusalemme ha toccato problemi religiosi difficili e nodi geopolitici dolorosissimi del Medio Oriente.
Ai Capi di Stato e di Governo dei paesi europei,
I negoziati fra Israele e l’Autorità nazionale palestinese, avviati nove mesi orsono sotto l’egida degli Stati Uniti, si sono interrotti alla fine di aprile senza risultati. Ognuna delle parti in causa accusa l’altra di essere responsabile del loro fallimento. Non essendo filtrate informazioni ufficiali circa il contenuto della trattativa, conformemente agli impegni assunti all’inizio, ci è difficile trarne un bilancio. Peraltro riteniamo che il ritorno allo status quo antecedente sia foriero di pericoli. Per questo Vi chiediamo di unirvi all’Amministrazione americana per proporre un accordo-quadro al fine di preservare la soluzione di «due stati per due popoli», la sola che permetterà ai Palestinesi di conseguire una piena esistenza nazionale in uno stato sovrano e a Israele di restare uno stato democratico con una maggioranza ebraica. Questo accordo-quadro avrebbe il merito di spingere le due parti a reagire e a rivelare i loro punti di disaccordo e di convergenza possibile. Permetterebbe loro di riprendere le trattative e di cercare di giungere a un accordo sulla base dei principi seguenti
di Mostafa El Ayoubi
Il Medio Oriente è una delle arene geopolitiche dove Usa e Russia si combattono per difendere o estendere ognuno i propri interessi. Anche l’attuale crisi ucraina contribuirà a complicare la situazione in questa martoriata regione del mondo.
L’attuale grave crisi diplomatica tra Washington e Mosca scoppiata intorno alla questione ucraina avrà delle conseguenze dirette sulla situazione geopolitica nel Medio Oriente. In particolare questo scontro si rifletterà sulla guerra in Siria, sul nucleare dell’Iran e anche sul conflitto israelo-palestinese. Quando tre anni fa è scoppiata la ribellione armata in Siria, gli Usa/Nato avevano calcolato che nel giro di pochi mesi al Assad sarebbe caduto, come è avvenuto per Gheddafi in Libia. Ma la reazione della Russia (e della sua alleata Cina) ha scombinato tali calcoli. Diversamente da quanto ha fatto nel caso della Libia, il Cremlino si è opposto fermamente all’intervento militare in Siria. La mossa di Mosca è stata ovviamente dettata dai suoi interessi geopolitici nel Medio Oriente. La destabilizzazione della Siria – messa in atto dal governo americano e dai suoi alleati – aveva come obiettivo togliere di mezzo al Assad e sostituirlo con un governante alleato ed estendere quindi la sua totale egemonia sull’intero Medio Oriente. Questa operazione avrebbe ridotto a zero l’influenza della Russia nella regione. Occorre ricordare che l’unica base militare russa che le consente di essere presente nel Mar Mediterraneo si trova a Tartus, in Siria.
Roma – dal 25 marzo al 1° aprile
L’iniziativa «Cinema Jenin: una storia palestinese tra passato e futuro», promossa da Confronti con il sostegno dell’8 per mille della Chiesa valdese (Unione delle chiese valdesi e metodiste), vedrà la partecipazione di due membri di Cinema Jenin, associazione che ha sede nell’omonima città nonché uno dei pochi cinema presenti nei Territori palestinesi. In quest’occasione Maisa Asir e Sayel Jarrar si confronteranno con il pubblico italiano per presentare il proprio lavoro (film e documentari), condividere le proprie esperienze ed analisi sulla situazione nei Territori palestinesi, rispondendo alle domande che verranno loro sottoposte.
Cinema Jenin, chiuso dopo la prima intifada del 1987, ha riaperto con aiuti internazionali e con immense difficoltà solo nell’agosto del 2010. Da allora l’associazione, animata da numerosi operatori e volontari, si propone di fornire attività culturali aperte a tutta la popolazione dell’area circostante la città.