di David Gabrielli
Dopo Cuba (19-22 settembre) Francesco ha visitato per cinque giorni gli Usa, costellando il suo pellegrinaggio di incontri importanti. Particolarmente significativi i discorsi da lui tenuti al Congresso statunitense, all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, all’Incontro mondiale delle famiglie svoltosi a Philadelphia. I temi geopolitici ed ecclesiali emersi, evidenziano prospettive di grande portata ma manifestano anche asperità data la complessità dei problemi incombenti la stessa difficoltà di attuare in concreto i princìpi a cui ci si appella.
La tappa statunitense del pellegrinaggio americano di papa Francesco ha avuto quattro picchi in altrettanti discorsi: al Congresso, all’Onu, all’episcopato degli Usa e alla conclusione dell’Incontro mondiale delle famiglie, a Philadelphia. Insieme questi testi rappresentano, ci pare, un corpus che riassume il pensiero geopolitico e quello ecclesiale e pastorale di Bergoglio.
Obama
Mostafa El Ayoubi
Il 30 giugno prossimo dovrebbe essere siglata l’intesa raggiunta ad aprile sul nucleare iraniano. La preoccupazione dei paesi arabi del Golfo, in particolare l’Arabia Saudita, e soprattutto la contrarietà assoluta di Israele, che vede l’Iran come una minaccia gravissima. Soddisfatto Obama, ma la maggioranza repubblicana del Congresso è contraria alla linea di apertura all’Iran. Le ragioni che hanno portato gli Stati Uniti a cambiare strategia e le importanti trasformazioni geopolitiche nella regione mediorientale.
L’accordo preliminare sul nucleare tra l’Iran e il gruppo 5+1 (i cinque membri permanenti del Consiglio di sicurezza dell’Onu più la Germania), firmato a Losanna all’inizio di aprile, costituisce un nuovo elemento importante da tenere in considerazione nel complesso puzzle geopolitico del Levante e del Golfo. Salvo imprevisti, il 30 giugno prossimo verrà siglata l’intesa che metterà fine a più di trent’anni di sanzioni ed embarghi imposti dagli Usa e dall’Ue al governo di Teheran, con l’impegno di quest’ultimo di rinunciare alla produzione del nucleare per scopi militari, l’atomica in sostanza!
intervista ad Alessandro Portelli
(Portelli ha insegnato Letteratura americana alla facoltà di Scienze umanistiche dell’Università La Sapienza di Roma)
I recenti episodi che hanno visto cittadini afroamericani – quasi sempre disarmati – uccisi da agenti di polizia, le reazioni della comunità nera, la condanna delle discriminazioni razziali espressa dal presidente Obama alle celebrazioni del cinquantesimo anniversario di Selma e il conflitto tra il Congresso e la Casa Bianca.
«Un cittadino nero statunitense ha più probabilità di essere ucciso nel suo quartiere che in Afghanistan. Sono infatti circa 400 le persone uccise ogni anno dalla polizia negli Stati Uniti, mentre la media dei soldati americani che muoiono in Iraq o in Afghanistan è di 385 l’anno». A parlare è Alessandro Portelli, che ha insegnato Letteratura americana alla Sapienza di Roma ed è impegnato da sempre a diffondere la cultura «dell’America a cui vogliamo bene», come lui stesso la definisce, «quella di Woody Guthrie, Pete Seeger, Bob Dylan, Bruce Springsteen, Malcolm X, Martin Luther King, Cindy Sheehan, Mark Twain, Don DeLillo, Spike Lee e Woody Allen».
di Paolo Naso
Con il risultato delle elezioni di midterm che si sono svolte a inizio novembre, si può considerare concluso il ciclo politico di Barack Obama. Gli restano ancora due anni di presidenza, difficilissimi, nei quali sia la Camera dei rappresentanti sia il Senato sono nelle mani dei repubblicani.
«Giudico potere esser vero, che la fortuna sia arbitra della metà delle azioni nostre», affermava Machiavelli per spiegare che il destino di un principe solo per metà dipende dalla sua virtù; per la metà restante dipende dalla fortuna. E Barack Obama, di fortuna ne ha avuta poca. Forse più netta del previsto, la sconfitta dei democrats alle elezioni di mid-term del 4 novembre pronosticata in tutti i sondaggi è puntualmente arrivata ed ha consegnato il Congresso ai repubblicani.
I dati sono così evidenti e corposi che ci costringono ad affermare quello che in cuor nostro non avremmo mai voluto ammettere, ovvero che con questo risultato si è concluso il ciclo politico del primo presidente nero degli Stati Uniti, l’uomo che soltanto sei anni fa ci aveva stupito con la sua vision dinamica e globale e che aveva saputo restituire una speranza ad ampi strati dell’elettorato ormai rassegnati all’idea che, chiunque fosse andato alla Casa Bianca, nulla sarebbe cambiato nella qualità della loro vita.