di Marco Mazzoli (professore di Politica economica, Università di Genova)
A sessant’anni dai trattati di Roma, si continua a discutere del “deficit democratico” dell’Unione europea, che purtroppo non è ancora riuscita a mettere in pratica il modello classico di democrazia: un governo federale democraticamente eletto che risponde del proprio operato a un’opinione pubblica europea.
Ue
di Biagio de Giovanni (filosofo, già parlamentare europeo e professore emerito di Filosofia politica all’Università Orientale di Napoli)
Molti i problemi che si trova di fronte l’unione: la Brexit, i muri e le rivendicazioni nazionali, la perdita di consenso nell’opinione pubblica, l’euro, l’immigrazione.
intervista a Gianfranco Pasquino (a cura di Adriano Gizzi)
Proseguiamo il nostro ciclo di riflessioni sull’Europa a sessant’anni dai trattati di Roma incontrando Gianfranco Pasquino, professore emerito di Scienza Politica dell’Università di Bologna, che al sogno europeo e alle sue difficoltà ha dedicato il suo ultimo lavoro, “L’Europa in trenta lezioni”.
di Biagio de Giovanni (filosofo, già parlamentare europeo e professore emerito di Filosofia politica all’Università Orientale di Napoli)
Dopo il referendum e la formazione del nuovo governo, l’Italia mostra ancora un quadro politico di grande incertezza.
di Monica Di Sisto (vicepresidente dell’associazione Fairwatch, tra i portavoce della Campagna Stop Ttip Italia – www.stopttip-italia.net)
Proseguono in segreto i negoziati del Trattato transatlantico sul commercio e gli investimenti per la creazione della più grande area di libero scambio al mondo (44% del commercio mondiale). Le conseguenze per l’Occidente e per i Paesi in via di sviluppo.
6,5 miliardi: sono tutti gli abitanti del pianeta che, non essendo cittadini degli Stati Uniti né dell’Europa, in teoria potrebbero volersi disinteressare del negoziato transatlantico di liberalizzazione di commercio e servizi in corso, quasi in segreto, dal 2013: il Ttip. In realtà, se le trattative arrivassero in fondo, creerebbero la più grande area di libero scambio interregionale al mondo, pari al 47% del Pil mondiale e al 44% del commercio mondiale, cosa che avrebbe implicazioni molto profonde non soltanto per le due sponde dell’Atlantico. Il 75% circa della facilitazione degli scambi tra i due blocchi, infatti, arriverà dalla rimozione delle attuali “barriere” che rendono gli scambi più complessi di quanto non vorrebbero le grandi imprese che operano attualmente su questa scala.
di Felice Mill Colorni
Non si tratta soltanto del Regno Unito, che forse è sul punto di non esserlo più. E non si tratta soltanto dell’Unione europea, che forse è destinata a non esserlo mai.
di Simone Maghenzani (docente di Storia moderna, Università di Cambridge)
Il referendum del 23 giugno vedrà il Regno Unito decidere della propria adesione all’Unione europea: non un fatto nuovo nella storia britannica. Già nel 1975 il paese venne chiamato alle urne per approvare la partecipazione al mercato comune europeo, con un referendum indetto dal primo ministro laburista, Harold Wilson. Oggi come allora il dibattito non coinvolge i temi dell’identità europea delle isole britanniche, o il ruolo di Londra sullo scacchiere internazionale. Se nel 1975 la decolonizzazione era fatto ancora recente, e si poteva pensare al Regno Unito come punto originale di intersezione tra la tradizionale “relazione speciale” anglo-americana, il Commonwealth, e l’Europa, oggi l’eredità dell’impero è lontana, e partner commerciali nuovi sono al centro della scena. Tuttavia, le due consultazioni sono assai simili. Se nel 1975 il referendum aveva l’obiettivo di tenere insieme il partito laburista, con una sinistra interna preoccupata che le decisioni di politica industriale sarebbero state prese a Bruxelles e non più a Westminster (tra gli oppositori di allora all’adesione al mercato comune, l’attuale leader del Labour, Jeremy Corbyn), oggi il referendum non ha altra ambizione che quella di David Cameron di mantenere l’unità del partito conservatore.
di Maria Paola Nanni
(Centro studi e ricerche Idos)
Le contraddizioni e le inefficienze del meccanismo previsto dal Regolamento Dublino. Le norme dell’Ue in materia di diritto d’asilo sono del tutto inadeguate a fronteggiare la crisi in corso e a garantire accoglienza e tutela a chi fugge in cerca di protezione.
L’eccezionale afflusso di persone in fuga, in cerca di sicurezza e protezione, che preme ai confini dell’Unione europea e attraversa i suoi territori, lungo rotte continuamente ridefinite dagli stessi indirizzi di governo dei paesi interessati (sbarrate da reti metalliche e filo spinato e poi ri-avviate da passaggi che ora si aprono ora si chiudono, sulla falsariga dei delicati equilibri politici dell’eurozona), sta segnando un’epoca, la nostra. Ma di che segno si tratta?
Senza dubbio, siamo di fronte a uno scenario “inedito”, tanto in termini qualitativi che quantitativi, che chiama le istituzioni nazionali e comunitarie a una sfida che, però, si trascina ormai da anni, spostandosi nei suoi risvolti più drammatici da una frontiera all’altra, da un muro all’altro, da Lampedusa a Ventimiglia, da Lesbo a Idomeni. E questo senza che nel frattempo si siano sviluppate risposte adeguate ed efficaci, a partire dal piano normativo e dalla sua fondamentale funzione di regolazione.
di Maurizio Simoncelli, vicepresidente dell’Archivio Disarmo
Quando si tratta delle tensioni in atto nel mondo, si rimane sorpresi della scarsa o nulla memoria storica circa le vicende che le hanno precedute e causate. Quasi in modo inaspettato i governi e l’opinione pubblica assistono da un lato all’espansione delle crisi mediorientali, dall’altro a nuove tensioni tra Mosca e Washington. Eppure le premesse e i segnali di tutto questo erano evidenti da tempo. La crisi del Medio Oriente affonda le sue radici negli accordi anglo-francesi del 1916 per spartirsi in futuro i territori sottratti all’Impero ottomano. Lo spezzettamento dell’area, la conflittualità israelo-palestinese, le tensioni insolute e la “geopolitica del caos” hanno creato le condizioni per un’instabilità sempre più grave ed allargata, evidenziando come la superpotenza superstite, gli Stati Uniti, in realtà non possa ergersi ad arbitra di un mondo multipolare e in profonda trasformazione. L’esportazione della democrazia con le baionette fallisce. Gli interventi militari occidentali prima in Afghanistan, poi in Iraq, infine in Libia, invece di essere risolutivi, precipitano tali paesi e quelli vicini in situazioni drammatiche, mentre l’Onu viene progressivamente emarginata.
di Felice Mill Colorni
Così com’è strutturata, l’Unione europea è un’aggregazione male assortita di Stati nazionali privi di reale sovranità. Allo stesso tempo, però, anche l’Europa nel suo assieme manca di sovranità, non dimostra la volontà di andare verso un vero federalismo europeo e continua così a contare poco sul piano internazionale.
C’è poco da fare. A livello statale non è più possibile nessuna forma di autodeterminazione democratica. O la politica europea si dota di strumenti di decisione democratica a livello europeo, o la democrazia non può più funzionare. Prima lo si capirà e meno disastrosi saranno gli effetti sull’idea stessa di democrazia. La sovranità nazionale non esiste più, e non è comunque più uno strumento adeguato alle sfide del nostro tempo. La lista Tsipras, qualunque cosa se ne pensasse, era parsa a molti portatrice di un’alternativa politica radicale alle politiche economiche prevalenti in tutta Europa.
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