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Nuto Revelli

by Goffredo Fofi

di Goffredo Fofi. Scrittore, critico letterario e cinematografico, giornalista.

Vent’anni fa, il 5 febbraio del 2004, moriva nella sua Cuneo Nuto Revelli, testimone di un’epoca e dei suoi disastri ma anche convinto assertore di ideali di libertà e responsabilità, protagonista non secondario e anzi esemplare della Storia italiana del Novecento. Ero ai suoi funerali, perché godevo della sua amicizia e lo sentivo o andavo a trovare spesso, e anche perché amico di suo figlio Marco, un militante e uno studioso di prim’ordine, e di sua nuora Antonella, anche lei cultrice di Storia contemporanea per mestiere e per vocazione.

Se così si può dire, Revelli fu ribelle anche suo malgrado all’ordine delle cose segnato dal fascismo e da altre dittature. Divenne un ribelle per l’esperienza diretta delle menzogne del regime. Ho avuto la fortuna di conoscerlo, di esserne stato amico, di averlo visitato più volte nella sua Cuneo, dove il lavoro di cui viveva da sempre era quello di commerciante di granaglie, e anche per questo conosceva così bene le valli e i monti del cuneese, se si può dire, contadino per contadino, montanaro per montanaro.

Quando fu richiamato in guerra e spedito con le nostre truppe in Russia, scoprì insieme all’orrore della guerra le menzogne del fascismo, a partire da quelle dei capi del suo esercito. Diventò antifascista in quel tempo, come ha più volte raccontato, e forse l’episodio centrale di quella tragica esperienza fu quando durante la ritirata si trovò col gruppo che dirigeva e guidava, ogni giorno meno numeroso perché l’inverno russo non perdonava (c’era pur sempre il “generale Inverno” di Guerra e pace), a trovare rifugio in un izba [una tipica abitazione rurale russa] abbandonata dai contadini russi e a scoprire che vi era ancora qualcosa da mangiare, qualche patata. Ebbene, egli prese la pistola e la mise sul tavolo insieme al cibo dicendo: «Devo essere io a mangiare questi resti, perché se muoio io nessuno di voi riuscirà a tornare vivo a casa, mentre se io sono in forze, molti di voi riuscirò a riportarceli». Di quella terribile marcia del ritorno portò per tutta la vita un segno: un pezzetto di naso tagliato, per congelamento.

Nel gennaio del 1943, durante quella marcia, Nuto divenne decisamente antifascista: «Maledii il fascismo, la monarchia, le gerarchie militari, la guerra. Avevo capito tutto, ma troppo tardi!» diceva. E «“Ricordare e raccontare”, fu questa la parola d’ordine che mi portai nel cuore da quell’esperienza tristissima».

Tornato in patria Nuto si fece partigiano dopo l’8 settembre a fianco del mitico Dante Livio Bianco (1909- 1953, avvocato e partigiano italiano, insignito della medaglia d’argento al valor militare), e a guerra finita, tornato al suo lavoro, trovò il tempo per scrivere alcuni libri fondamentali per capire chi eravamo, storie di vita trascritte a penna interrogando i montanari e, più tardi, dopo libri indimenticabili come La guerra dei poveri e L’ultimo fronte e La strada del Davai, Il mondo dei vinti, passando fluidamente dal racconto alla riflessione, e dando via via la parola agli altri, ai soldati e ai partigiani, ai contadini. E alle contadine, in quello che è stato forse il suo libro più nuovo, L’anello forte: storie di vita contadina, pubblicato come gli altri suoi libri da Einaudi.

In L’anello forte compaiono tante storie della trasformazione del mondo contadino negli anni del boom, storie di donne, formidabili ritratti di donne molte delle quali erano le cosiddette (nel cuneese) “calabrotte”. Non trovando mogli nel mondo contadino e montanaro, ché le ragazze preferivano andare a fare le commesse in città o a Torino piuttosto che fare la faticosa vita delle loro madri e nonne, vi furono preti e sensali che organizzarono contatti tra giovani montanari piemontesi e giovani contadine calabresi, finiti in matrimoni quasi sempre riusciti, in unioni felici.

Il lavoro di Nuto Revelli, senza pompe e senza lauree se non honoris causa, è stato uno di quelli che più hanno contribuito alla conoscenza del nostro Paese da parte dei nostri connazionali, spesso così pigri e prevenuti, e di noi tutti (con i lavori di Danilo Dolci, Danilo Montaldi, Rocco Scotellaro, Luciano Bianciardi e Carlo Cassola e altri ancora, raccoglitori instancabili di “storie di vita” di proletari). Uno degli ultimi lavori di Nuto fu la ricerca di testimonianze su una leggenda del tempo di guerra, ancora nel cuneese, quella del “tedesco buono”, narrata in un ultimo bellissimo libro.

Per anni, ogni 25 aprile, soprattutto dopo gli anni vissuti a Torino, era mia abitudine telefonare di prima mattina a tutti gli ex partigiani che avevo conosciuto, taluni assai noti altri molto meno ma nei cui confronti mi sentivo ugualmente debitore, io come tanti e come avrebbero dovuto anzi esserlo tutti gli italiani. E ricordo con particolare commozione i dialoghi all’alba di tanti 25 aprile con il grande Nuto, ricordo le sue amarezze e disillusioni e però anche le sue speranze, la sua fedeltà ai valori di fondo per i quali tanti egli aveva visto morire.

Illustrazione © Doriano Strologo

Goffredo Fofi

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Scrittore, critico letterario e cinematografico, giornalista.

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