di Luisella Battaglia. Università di Genova, Comitato nazionale per la bioetica (CNB) - Roma
Se – come afferma Gadamer – che ciò che caratterizza il sorgere del problema ermeneutico è la necessità di colmare una distanza, di superare un’estraneità, esso pare destinato a fiorire specialmente nei momenti di crisi delle visioni consolidate, quando la nostra esperienza del mondo si fa sempre più problematica e complessa. Ma non è forse questa l’esperienza che oggi stiamo drammaticamente vivendo dinanzi alle sfide del XXI secolo, in cerca di una rinascita culturale che prometta una resurrezione del senso? Ci troviamo in effetti dinanzi ad una sorta di “necrofilia del senso” che ci dovrebbe sollecitare a pensare – per riprendere l’espressione di Hanz Gutierrez – a un’”ermeneutica della vita”.
A questo progetto si ispira il suo saggio di ermeneutica teologica la cui tesi centrale riguarda la natura della Bibbia (testo) e la natura dell’atto interpretante che la riprende (lettore) a partire da una riflessione sul “circolo ermeneutico”, sulla sua configurazione e sulla sua portata. Ci troviamo qui dinanzi a un’oscillazione fra una comprensione tradizionale della Bibbia come “testo re”, di fronte al quale il lettore può solo piegarsi in ubbidiente ascolto, e una comprensione moderna del “lettore creativo” come produttore di un senso che la Bibbia può solo suggerire. In questa seconda prospettiva l’interpretazione si configura come esperienza di una travagliata precisazione di un senso che – come ci ricorda l’A. – rimane sempre e comunque un senso complesso, plurale e paradossale, proprio perché è un senso umano e perché tutto il processo interpretativo è radicato in un linguaggio orale o scritto che, pur attualizzato, resta indisponibile e misterioso.
G. ci invita nelle sue pagine alla consapevolezza che la lettura può diventare la tomba del senso o il luogo della sua risurrezione. Diviene la sua tomba quando i significati si susseguono ininterrottamente, ma in modo automatico e prevedibile e la lettura è pura constatazione da cui non deriva essenzialmente nulla di asimmetrico, nessuna rottura e nessun paradosso che punti in avanti. È il luogo della sua risurrezione, invece, quando i significati sono intermittenti, imprevedibili e frammentari e la lettura diventa come un parto, esperienza segnata dalla fatica e dalla sofferenza, ma nell’attesa di qualcosa di nuovo e di unico che dipende in parte dal lettore, ma non è completamente suo. Potremmo pertanto dire – seguendo la suggestiva metafora suggerita dall’A. – che, come il parto, ogni lettura è un misto di continuità e discontinuità, è fine e inizio, luogo di speranza per eccellenza, spazio di attesa di una conversione e di un cambiamento in virtù di uno sguardo differente, obliquo e non programmato.
Uno sguardo altro, dunque, che esige una riforma radicale della mente e dello spirito, quello che potremmo chiamare lo stupore ek-statico dell’uomo nuovo che si apre all’incanto di ciò che è. Per questo motivo la lettura, più che precisione e disciplina, richiede soprattutto visione e passione: un’esperienza erotica – come viene felicemente definita – che mette in cammino il lettore di fronte a qualcosa che si vede e si nasconde, che crea movimento nell’immaginazione e sveglia la curiosità e la passione per un senso nuovo nella fiducia dell’attesa. Ci si colloca qui manifestamente in una prospettiva ben lontana dal positivismo biblico e dal positivismo ecclesiologico a cui corrisponde un parallelo positivismo culturale, trasversale e diffuso nelle nostre società secolarizzate. Non si dimentichi, a questo riguardo, che il saggio si presenta esplicitamente come una critica sia del “positivismo testuale”, che fa dell’univocità e della chiarezza di un testo il traguardo principale del proprio compito, sia del “positivismo culturale” che eleva l’univocità e la chiarezza a paradigma ultimo e totale del sistema in cui viviamo.
Proposito dichiarato dell’A. è infatti provare a problematizzare la nozione di “testo” e quella di “interpretazione del lettore” strappandole a quel positivismo ermeneutico che le concepisce ambedue solo come istanze di chiarezza, preservando in tal modo la dimensione di mistero, ambivalenza e paradosso della vita, senza la quale il senso stesso ne uscirebbe deformato e compromesso.
Nella penetrante analisi critica che ci viene proposta il positivismo culturale si compone di due anomalie, essendo, a ben riflettere, la perfetta sovrapposizione di un “difetto” e di un “eccesso” o, più precisamente, un misto paradossale di un difetto “d’incanto” e di un eccesso di “efficienza”. Se l’“eccesso” di efficienza, nelle varie sue forme possibili, è dato dal culto della precisione per cui la misura ha inghiottito la complessità, il “difetto” è il risultato dell’incapacità ormai cronica di pensare e di vivere il simbolo nella sua strutturale ambivalenza e paradosso. In ciò si potrebbe riconoscere “la malattia dell’Occidente” contraddistinta da un difetto cronico: l’inconfessabile incapacità di mitizzare, di creare un senso vivo e trasformatore, lungi dall’essere riconosciuta come un’involuzione culturale, viene sublimata come una virtù conoscitiva.
Il risultato? Si è costretti a conoscere di più perché di fatto si conosce meno e male. G. definisce nelle pagine del suo saggio questo positivismo culturale e il correlato positivismo biblico come “nichilismo ermeneutico” il cui risultato finale è un’apatia e un analfabetismo simbolico che costringe l’uomo occidentale a proporre come risolutive delle “forme vuote”, che però erige a parametro universale. Occorre aggiungere che un’erotica dell’interpretazione, come quella proposta, ci spinge ad andare non solo oltre la Bibbia ma anche oltre l’Occidente che epistemologicamente, secondo Gutierrez, ha ucciso gli altri saperi del mondo imponendo agli altri popoli il suo sapere come unico possibile.
L’Occidente, tramite delle sofisticate strategie informative, educative e pubblicitarie, vuole insegnare ai popoli del Sud, per esempio, come fare gruppo, come gestire la natura, come credere in Dio, come leggere i testi o che cosa sono i simboli. Il nichilismo ermeneutico, potremmo dire, è dunque il vuoto che si presenta come pienezza, la forma come sostanza, la quantità come qualità, la crescita come sviluppo, la complicatezza come complessità, il contratto come dono o il significato come senso. E qui giungiamo alla domanda davvero fondamentale. Come ritrovare il senso ermeneutico e il senso culturale smarriti in un periodo storico come il nostro, dove tutto deve essere immediatamente efficiente e immediatamente usufruibile?
Ad avviso dell’A. un rinnovamento ermeneutico non basta ma occorre una metanoia culturale, una Auferstehung culturale, una vera e propria rinascita dello Spirito che accompagni quello che si è definito lo ‘sguardo altro’. Il rovesciamento di una cultura positivista, che rinchiude la vita e il senso nel meccanismo di un calcolo e di un’equazione razionale, può essere rovesciato – argomenta persuasivamente Gutierrez – soltanto da una cultura della vita, da un cambiamento di linguaggio, da una risurrezione spirituale. Per questo motivo è lo Spirito della Vita – da intendersi come lo Spirito inclusivo e universale il cui orizzonte di azione non è quello stretto di una confessione, di una cultura, di un periodo storico, ma l’orizzonte che include ogni forma di vita, umana e no – che deve ridiventare il centro di una rinascita spirituale e culturale. Il rinnovamento dell’ermeneutica, il ricupero del senso della vita e del senso biblico e, in una prospettiva più larga, anche il ricupero del senso in generale, passano dalla “svolta pneumatologica” che ci invita sia a un cambiamento di linguaggio e, contemporaneamente a una rivisitazione e reinterpretazione di tutto il messaggio cristiano, costituendo la base per rinnovare la cultura e aprire una nuova concezione del senso.
Ci si potrebbe ancora chiedere per quale motivo l’A. ricorra a una metafora così forte, come l’Auferstehung, spostandola dal suo naturale contesto biblico-teologico per applicarla a tutta la cultura. Tra i vari motivi mi sembra di grande rilievo quello suggerito dalla filosofa Martha Nussbaum che in Upheavals of Thougt descrive il vero cambiamento di oggi come un “terremoto di pensiero” per cui l’Auferstehung si configura come una tipica esperienza relazionale col totalmente Altro. In altri termini, non si risuscita da soli, come non si nasce da soli, tramite un esercizio della propria volontà e consapevolezza, ma unicamente tramite l’affidamento all’intervento di un Altro che ci viene incontro dal di fuori. Il ritrovamento del senso in Occidente non può dunque avvenire tramite un perfezionamento o un’innovazione interna al sistema moderno che porterebbe alla perpetuazione dell’anomalia che si vuole correggere. Il sistema deve invece essere “rotto” dall’esterno, tramite forme alternative di pensiero che provochino dei veri e propri movimenti tellurici, delle scosse epistemologiche, e che abbiano come comune denominatore la forza motivazionale, prospettica e simbolica delle emozioni.
Queste strategie alternative di conoscenza sono delle tipiche e classiche strategie di “riconoscimento” dell’Altro, che l’Occidente non ha solo smarrito ma ha prematuramente e cinicamente chiamato superstizione. Se nella narrativa dell’uomo moderno, la spinta verso un futuro ordinato e di crescita è esclusivamente vista come virtù, nella lettura di Gutierrez la passione per un mondo ordinato ed efficiente è il segno di una perdita antropologica, la perdita dell’Altro. Una perdita che appare segnata da un’ambiguità strutturale perché ha fatto nascere uno straordinario dinamismo organizzativo e creativo alla base del progresso dell’Occidente, il cui lato oscuro, tuttavia, non solo è la minimizzazione, il discredito e poi l’oppressione e sfruttamento degli altri popoli e delle altre specie, ma ancora più paradossalmente il logoramento e l’alienazione del proprio progetto di civiltà.
L’Auferstehung dell’Altro richiede di conseguenza l’introduzione di un nuovo linguaggio dal momento che l’Altro non può essere scoperto con il linguaggio positivista corrente che lo rende anonimo e lo neutralizza. L’unico modo, quindi, di arricchire il senso è di collegarlo a ciò che lo garantisce, alla vita, alla realtà, a Dio. È infatti nel collegamento con l’altro e gli altri sistemi culturali, sociali e religiosi, però diversi, che il senso può ritornare e ricominciare a vivere. Da qui l’invito ad una resistenza culturale che ci consenta di superare l’universalismo astratto per pervenire ad un universalismo delle differenze in virtù di una mediazione culturale articolata su due dimensioni, la prima antropologica e culturale, la seconda ecologica e politica. Si tratta fondamentalmente di riscoprire il valore incommensurabile del legame, un valore che, secondo l’A., l’Europa dovrebbe apprendere dagli altri popoli, imparando a interagire con le altre culture. È questa, a suo avviso, la strada per superare il nichilismo gnoseologico – che sembra costituire la cifra più esplicativa della nostra civiltà – e insieme rispondere al problema della disgregazione sociale.
Occorre tuttavia sottolineare – avverte Gutierrez – che il collegamento con la vita, con gli altri e con Dio, come cammino per garantire un senso vivo, avviene solo quando quell’Altro, cioè la vita, non la possiedo ma la contemplo, l’ascolto e la bene-dico, cioè ne parlo bene senza manipolarla e, soprattutto, quando in quell’Altro scopro e riconosco la sua indisponibilità. Si tratta di una notazione di grande rilievo che, nel sottolineare la necessità di imparare a pensare diversamente, lasciandosi alle spalle una concezione dell’etica fondata su criteri angustamente antropocentrici, evidenzia implicazioni estremamente significative per la riflessione bioetica.
L’indisponibilità che contrassegna non solo l’Altro ma anche la possibilità del senso, è tale solo in virtù – si ribadisce ancora una volta – della sua ambivalenza e del suo paradosso, cioè del suo mistero e della sua capacità di sorprendere, in virtù di quella sua complessità intrinseca che s’impara a riconoscere e a rispettare. Per questo motivo un’ermeneutica della vita, multiculturale ed ecologica in un mondo irreversibilmente plurale ci sollecita a saper guardare con amore e rispetto la complessità del mondo collegando vita, pluralismo, specificità culturali e comunità intorno alla centralità dell’opera dello Spirito. Ci muoviamo ormai in un contesto epistemico post-meccanicistico e post-antropocentrico, nell’orizzonte transdisciplinare di una storia globale.
Per questo, se l’incontro dell’ermeneutica con le scienze umane e, in particolare, con le scienze della vita, dall’ecologia all’etologia, avviene nel segno della complementarietà, si rivela particolarmente fertile, a mio avviso, per la bioetica recuperata nel suo significato originario di “etica per il mondo dei viventi”, secondo la visione di Fritz Jahr, il teologo luterano che per primo ne coniò il vocabolo nel lontano 1927. Da qui il rilancio di una nuova ontologia e di una nuova antropologia al cui centro sia l’esplicito riconoscimento dell’apertura ad una rinnovata mappa concettuale e ad un’etica planetaria in cui – come ci insegna la bioetica ispirata al pensiero della complessità – i linguaggi della vita si dispongono in un rapporto di reciproci ascolti e visioni.
Foto © Mimemis International

Luisella Battaglia
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