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Però non ha cominciato lui

di Nicola Pedrazzi

di Nicola Pedrazzi. Giornalista, redattore della rivista il Mulino, già corrispondente da Tirana per Osservatorio Balcani e Caucaso

Di fronte al conflitto russo-ucraino, l’atteggiamento di molti è riassumibile in: «Putin è l’aggressore, però…». Questo “fronte del però” ha a che fare con un pattern argomentativo fatto di posizioni novecentesche che è bene rinvenire nella Storia della Sinistra italiana.

Qualche giorno fa Michele Masneri ha scritto che «il vero fallimento di Putin è aver speso un botto per allevare dei putinisti di estrema destra in Italia per scoprire che c’erano quelli di estrema Sinistra pronti a dargli retta gratis». Mi reputo di Sinistra e mi ha dato un fastidio istintivo leggere questa sentenza, ma dopo un po’ di carotaggi nella mia cerchia devo riconoscerla non priva di fondamento. Sono nato a Bologna fuori porta Santo Stefano, appartengo al ceto medio riflessivo italiano, più o meno all’interno di questo perimetro borghese e progressista si svolge la mia esistenza, e dunque è all’interno di questo gruppo che parlo della guerra in Ucraina.

Tra un certo numero di miei simili l’atteggiamento su questa tragedia è riassumibile in: «Putin è l’aggressore, però…». Segue un repertorio molto vario (e non ugualmente da buttare) che non starò qui a sintetizzare. Com’è ovvio la realtà storica, sistemica e locale è sicuramente più complessa dell’aggressività di un dittatore, ma dobbiamo riconoscere che la velocità con la quale si è attivato questo “fronte del però” tra persone normalmente avvezze a distinguere con nettezza il bene dal male non ha a che fare con l’Ucraina: ha a che fare con un pattern argomentativo fatto e finito, pronto a scattare a prescindere dal contesto in cui viene applicato perché, appunto, non parla mai dell’oggetto ma del soggetto. Lo schema che, nel nome della complessità, porta persone democratiche e pacifiste a ricalcare le scorciatoie argomentative della destra più becera è fatto di posizioni novecentesche che è bene rinvenire nella storia della Sinistra italiana. Coraggio compagni, proviamo a essere pensosi anche su noi stessi e non soltanto sul nemico.

Primo ingrediente: l’antiamericanismo. Sarà stata la grandezza di Jimi Hendrix a Woodstock – quell’inno americano schitarrato tra le bombe del Vietnam è di una meraviglia senza tempo –, di fatto da allora il riflesso è più forte di noi: l’America è l’Impero, denunciarlo è un dovere. Se l’Imperialismo è per definizione a stelle e strisce, chi usa la forza per contrastarne l’egemonia magari non è nel giusto, ma non si comporterebbe così male se l’Impero non esistesse. L’intensità di questo carpiato delle cause e degli effetti può variare: non tutti sostengono ad alta voce la tesi (falsa) che la Nato pianificasse la cooptazione dell’Ucraina, non tutti arrivano a sostenere che Putin stia rispondendo a una provocazione americana; tuttavia l’ipotesi che questa guerra derivi più dal ritiro statunitense dal mondo che dal suo espansionismo tende a venire esclusa dal perimetro delle nostre conversazioni. E con essa la logica discussione che dovrebbe seguirne, sull’urgenza di una difesa comune europea e, in prospettiva, sissignore, di un esercito europeo. D’altronde, se mai arrivassimo a questo punto dovremmo poi affrontare altri due steccati ideologici: il pacifismo utopico e l’euroscetticismo. I due nemici storici di qualsiasi progetto federale europeo, poiché quella federalista è una teoria realista delle relazioni internazionali (la guerra fuori dalla Federazione non finisce, ma possiamo evitarla al suo interno).

Secondo ingrediente: l’euroscetticismo. Il fatto che Nato e Unione europea non siano la stessa cosa lede alle tesi dell’antimperialismo, e dunque tendiamo a raccontarli come fatti consequenziali, come se non ci fossero Paesi Ue non membri della Nato (la Svezia e la Finlandia) e Paesi Nato non membri dell’Ue (l’Albania e la Macedonia del Nord che all’Ue sono candidati, o la Norvegia che all’Ue non desidera aderire). Chi ha la fortuna di vivere in un Paese fondatore della Cee – che certamente negli anni Cinquanta fu agevolata dall’ombrello militare americano, ma che nacque su basi politiche e culturali continentali – ha tra i suoi lussi quello di non dover distinguere all’interno delle organizzazioni del mondo Occidentale, e quel che è più grave: fatica a comprendere chi desidera aderirvi. Ai confini dell’Ue l’europeismo è sempre molto forte, basta andarsi a rileggere i risultati dei referendum con cui i cittadini dei Paesi ex sovietici scelsero di aderirvi nel 2004: escluse Estonia e Lettonia (dove il sì si fermò al 67%), gli altri sei Paesi che ratificarono il trattato di adesione per via referendaria ottennero un consenso pari o superiore al 77% dei votanti, con picchi oltre il 90% in Slovacchia e Lituania. Gli Ucraini che nel 2014 sono scesi in piazza sventolando le bandiere dell’Ue sono mossi da una fame simile: vogliono il nostro benessere, la nostra sicurezza, i nostri diritti. Vogliono il capitalismo. Quest’ultimo desiderio però tendiamo a non perdonarglielo, come non scusiamo i rumeni e gli albanesi d’Italia per i macchinoni e il vestiario luminescente. Questi fratelli dell’Est li vorremmo più edotti, più preparati e consapevoli dinanzi alle contraddizioni dell’Occidente e dei suoi lustrini. Nel vuoto in cui lasciamo cadere l’europeismo proveniente da Kiev – magari sconclusionato, magari superficiale, ma spontaneo e vitale, e sebbene l’Ue non abbia alcuna agenda per l’adesione dell’Ucraina: è questa la tragedia del popolo ucraino – riecheggia un’accusa decadente: davvero volete essere come noi? Vengono in mente le vignette di Sergio Staino sui marxisti-leninisti italiani che sognavano che un giorno l’Italia sarebbe stata come l’Albania socialista: crollato il comunismo per il migrante albanese sul gommone predicammo accoglienza, ma in cuor nostro gli imputammo di averci svegliato dal sogno di un mondo migliore.

Terzo ingrediente: l’antigovernismo. Non potendo, per ragioni sistemiche, confrontarsi con le responsabilità di governo, dal secondo dopoguerra il primo partito della Sinistra italiana si è trasformato da fautore del nobile compromesso costituente a Stato utopico parallelo, libero da ogni onere della prova. Gli elettori del PCI (i nostri genitori) sono vissuti dentro a questa allucinazione e più o meno consciamente ce l’hanno trasmessa. Nonostante i carri armati in Ungheria (in questi giorni è istruttivo rileggere le ricostruzioni del L’Unità del 1956) e la caduta del Muro, la cultura profonda del PCI è sopravvissuta al partito, e l’idea di essere un baluardo di verità nel mare della menzogna e della corruzione dell’Italia “ufficiale” è tornata utile sia durante Tangentopoli sia durante Berlusconi, per poi confluire nel populismo dei Cinque Stelle, che non per nulla hanno sempre custodito il feticcio di Berlinguer nel loro pantheon simbolico. In questo schema il governo Draghi non può avere ragione: perché è un governo, e i governi sono guerrafondai in quanto tali. Per motivi analoghi nell’aprile 1997 Romano Prodi dovette chiedere i voti a Forza Italia per farsi autorizzare la guida italiana dell’Operazione Alba, che sotto l’egida dell’Onu pose fine alla guerra civile albanese. Ligia al copione antigovernista, Rifondazione Comunista negò i suoi voti anche se era in maggioranza. La missione italiana risolse il conflitto e si concluse nei tempi prestabiliti e senza caduti, ma oggi nessun pacifista di sinistra se la ricorda, perché le paci raggiunte con l’uso sapiente e condiviso dei mezzi militari non sono funzionali alla narrazione cui dobbiamo ricondurre ogni cosa.

Quarto ingrediente: l’antifascismo. Qui siamo al cuore del carpiato argomentativo. Quando ho sentito Putin raccontare la guerra come operazione di “denazificazione” ho provato sollievo: pensavo che venendo da lui questo argomento fosse bruciato, e che da noi sarebbe stato impraticabile. E invece no. A chi stiamo dando davvero queste armi? Lo sappiamo chi stiamo aiutando? Si tratta di domande assolutamente sensate, purché il loro porsi abbia come obiettivo una risposta e non l’insinuazione. La risposta è che esistono tre formazioni di estrema destra in Ucraina: Svoboda (Libertà), un partito politico con il 2% e 1 parlamentare; il Reggimento Azov, un reparto militare dichiaratamente neonazista che ha sul terreno 3000 volontari, pari all’1% dell’insieme delle forze ucraine, e che le autorità hanno preferito inglobare per utilizzarlo / tenerlo sotto controllo; e infine Pravyi sektor (Settore Destro), un’organizzazione paramilitare responsabile della strage di Odessa del 2 maggio 2014, sostanzialmente emarginato dalla politica ufficiale. Domenico Valenza su East Journal ha giustamente ricordato che l’impatto dell’estrema destra nello spazio pubblico ucraino è marginale, non troppo diversamente da quanto accade nei Paesi occidentali (dove in questi anni partiti di estrema destra hanno flirtato con il Cremlino: il parlamento giallo-verde è un parlamento filorusso come non mai, ce lo siamo dimenticati solo perché c’è Draghi). Quand’anche in pace, l’Ucraina di Zelenskyy non sarebbe probabilmente un Paese semplice in cui vivere: nessuno pensa che stiamo aiutando degli stinchi di santo animati da genuino spirito democratico. Ma nel nome della complessità che sbandieriamo, possiamo eliminare dal dibattito la scala dei problemi e gli ordini di priorità? Il paradosso è che vediamo il fascismo in ogni dove, tranne quando lo abbiamo davanti.

In conclusione, la guerra della Russia in Ucraina rende evidente come nessun’altro evento prima d’ora il fatto che in Italia, a Sinistra, discutiamo su copioni fissi: il mondo muta, noi no. Avevo dieci anni e Michele Santoro mi parlava in prima serata della Nato, ne ho 35 e Michele Santoro continua a parlarmi in prima serata della Nato (evidentemente in questi 25 anni lui non ha mai parlato con un kosovaro). «La mia Cecilia» siamo tutti noi, e questo è un problema grave. Perché sui tic interpretativi di questa cultura, di cui il sistema mediatico italiano rimane intriso, si sovrappone la disinformazione online. Rischiamo, davvero, di non capirci più nulla. Di litigare sempre più lontano dalla realtà. Di non vedere e non affrontare il pericolo. Di non capire quello che lo storico Andrea Graziosi ha chiamato “la fine di un’epoca”.

Tra qualche giorno sarà il 25 aprile. Chissà se almeno in quel giorno riusciremo a celebrare chi resistette nonostante la disparità di forze sul campo, chi armò quella resistenza a prescindere dalla diversità politiche che incorporava. Chissà se siamo ancora in grado di ringraziare persone che, nell’atto di rischiare la vita, si dettero un ordine di priorità e accettarono un compromesso. Chissà se chi, in queste ore, rimprovera agli ucraini di non essere sufficientemente arrendevoli conosce queste righe che Gaetano Salvemini scrisse nel 1938, poco dopo l’assassinio dei fratelli Rosselli:

«Uomini che vivono in Paesi liberi, come la Francia, l’Inghilterra, l’America spesso ci domandano che cosa noi speriamo. E in fondo alla loro domanda c’è come un oscuro rimprovero: dal momento che siamo incapaci di annullare il fatto compiuto, perché non ci arrendiamo? […] Allora io spiego che né essi né io sappiamo cosa si nasconde dietro il velame del futuro. Nessuno prevedeva nel 1920 la vittoria del fascismo in Italia. Nessuno può prevedere nel 1938 quel che sarà dell’Italia e del mondo nel 1940. Quando soppesiamo le forze oggi a confronto e cerchiamo di calcolare quale direzione la loro risultante seguirà nel futuro, dobbiamo sempre ricordare che tutti i nostri calcoli sono assai incerti […] e che nove volte su dieci quel che avviene è quel che nessuno si aspettava. […] Un fatto solo è sicuro: che fra i fattori dell’avvenire esiste anche la nostra volontà, la nostra azione, la nostra testardaggine. Ciascuno di noi troverà nell’avvenire quel tanto che vi avrà messo di se stesso. […] Solo chi si arrende ai fatti compiuti non vi troverà nulla, perché non vi avrà messo nulla».

Ph. Engin Akyurt © Unsplash

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Nicola Pedrazzi

Redattore della rivista il Mulino, già corrispondente da Tirana per Osservatorio Balcani e Caucaso

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