di Mostafa El Ayoubi
Tunisia, Egitto, Libia, Siria, Iraq: con pochissime eccezioni, sia i paesi che hanno vissuto un periodo di rivolte a favore di una svolta in senso democratico sia quelli che non hanno vissuto un cambiamento di regime si trovano ad affrontare problemi vecchi e nuovi a cui è sempre più difficile trovare soluzione.
La grave crisi in cui sono sommersi diversi paesi arabi non sembra avere fine. Il deterioramento della situazione in Iraq, invaso di recente in modo massiccio dai jihadisti, ne è la prova. Dopo le cosiddette «primavere arabe», il vuoto politico lasciato dalle dittature deposte non si può di certo colmare in tempi brevi in mancanza di un terreno culturale in cui possano germogliare i valori della democrazia: i dittatori deposti avevano trasformato in deserti socio-culturali e politici i paesi che avevano «governato» per decenni. È lecito tuttavia interrogarsi sui passi fatti in avanti (o indietro) nel processo di cambiamento politico ispirato alla democrazia. Qual è oggi la situazione politica e sociale in Tunisia, il primo paese in cui i cittadini sono riusciti a cacciare via un dittatore? Come si presenta oggi il panorama politico in Egitto? Che ne è oggi della Libia post-Gheddafi? Ancora più impellenti sono gli interrogativi sulla situazione in Siria…
Politica
di Felice Mill Colorni
Le elezioni europee non sono ancora mai state del tutto europee. Lo diventeranno se e quando eleggeremo il Parlamento con la stessa legge elettorale e voteremo per partiti europei, per formare un esecutivo europeo. Per ora sono le leggi statali a stabilire il sistema elettorale. Si eleggono, separatamente, e perfino in date parzialmente diverse, i deputati europei «spettanti» ai diversi Stati membri. E l’«esecutivo» europeo è ancora oggi nominato con una complessa procedura prevista dal trattato di Lisbona, che, se riconosce al Parlamento maggiori poteri di prima, non arriva al punto di richiedere che esista fra il Parlamento e la Commissione lo stesso rapporto di fiducia che è richiesto fra Parlamento e governo nelle democrazie dei paesi membri.
di Adriano Gizzi
Per mesi i media hanno preparato l’opinione pubblica al fatto che con le elezioni europee si sarebbe abbattuta un’ondata euroscettica e «anti-europea» su tutto il continente. Spesso, però, hanno dimenticato di analizzare e spiegare come e perché nascono le critiche verso alcune scelte compiute dall’Unione europea. I cittadini vengono così divisi in pro e contro l’Europa: la possibilità di essere a favore dell’unità, ma per andare in una direzione diversa, non viene presa in considerazione.
Come previsto da tutti, le elezioni europee di maggio hanno segnato il trionfo dei cosiddetti «euroscettici»: categoria molto vaga, che può essere più o meno estesa a seconda dei punti di vista. Potremmo comprendere in questa definizione tutti i critici verso le politiche portate avanti in questi anni da popolari, socialisti e liberali nel Parlamento europeo. Ma quest’area vasta (ormai quasi al 40%) è anche molto eterogenea e comprende forze politiche moderate ed estremiste, di destra, di sinistra e senza etichetta. C’è tutto e il suo contrario: pacifisti e ultranazionalisti, difensori dei diritti umani e beceri razzisti, fini intellettuali e populisti, amici degli animali e neonazisti. Non tutti i media sono stati attenti a distinguere, per cui per esempio è capitato che qualcuno definisse «euroscettici» i nazisti greci di Alba dorata.
di Giuseppe Giulietti
Milioni di italiani non hanno gradito una campagna elettorale sguaiata, urlata… Come utilizzerà ora Renzi questa investitura popolare? La riterrà un via libera su tutto, una promozione del governo con Alfano, un “sí” anche ad eventuali alleanze con Berlusconi? Oppure la utilizzerà per “cambiare verso” davvero all’Italia e preparare lo schieramento che dovrà affrontare le prossime elezioni politiche? Le prossime mosse saranno decisive e faranno capire la direzione di marcia.
«Fortunato di essere in Italia». Questa la prima paradossale sensazione, mentre guardo i risultati che arrivano dal resto d’Europa. Altrove razzisti, neonazisti, neofascisti raggiungono percentuali a due cifre: dalla Francia alla Danimarca, dalla Grecia all’Ungheria… qui sono restati al palo, non sono, almeno per ora, in condizione di nuocere. Per una volta l’infelice anomalia italiana ha avuto la meglio sulla infelicissima norma europea e non ci sembra poca cosa anche perché, pure a casa nostra, erano risuonate le parole della discriminazione, della xenofobia, della caccia allo straniero e al diverso.
di Luigi Sandri
Quarant’anni fa Vaticano ed episcopato – salvo eccezioni – si batterono per far vincere il Sì all’abrogazione della legge sul divorzio; ma vinse il No, per il quale si impegnarono anche molti cattolici, del disagio e del dissenso. E le gerarchie, sconvolte, scoprirono un paese laico, secolarizzato e con il gusto per la libertà di coscienza. Sembra preistoria, eppure – storicamente parlando – è solo ieri: ci riferiamo alle vicende collegate al referendum sulla legge del divorzio, che ebbe luogo in Italia quarant’anni or sono, il 12 e 13 maggio 1974. Raccontare un pochino il «come eravamo», soprattutto a chi quei tempi non ha vissuto, ci sembra interessante, perché quella data, simbolicamente, può essere ritenuta uno spartiacque sia nella Chiesa cattolica – a livello di Santa Sede e di Italia – sia nella società. Il dilemma Sì-No lacera la Chiesa cattolica. Da sempre quasi tabù nel mondo politico italiano, l’idea di introdurre una legge sul divorzio prese vita formalmente nel 1965, quando i radicali, con ardire, crearono la Lega italiana per l’istituzione del divorzio; da parte loro, due deputati, il socialista Loris Fortuna e il liberale Antonio Baslini unificarono le loro proposte sul divorzio che, infine, il primo dicembre 1970 divenne legge dello Stato. La Dc, pur contraria al testo, tenne a bada i suoi esponenti più antidivorzisti che volevano fare ostruzionismo.
di Corradino Mineo, senatore del Pd – Il problema di Renzi non è Renzi, sono gli altri. Si è affermato, come politico puro, grazie alla debordante volontà di potenza e dopo che i maestri della politica, i professionisti presunti di quel mestiere, uno dopo l’altro s’erano gettati giù dalla torre. Il «rottamatore» ha dato solo l’ultima spintarella. Molto di più hanno fatto Beppe Grillo, sputtanando l’opposizione inconcludente al ventennio di Berlusconi, e Giorgio Napolitano prima ricorrendo al governo dei tecnici e mostrando con che povera creta fosse impastata la «riserva della Repubblica», poi ostinandosi a proporre un governo costituente con Berlusconi, sovrapponendo alla palude le «larghe intese della Casta».
Così è arrivato sul proscenio il piè veloce, non scordiamolo. Ma cosa c’è dietro Renzi: il nulla sotto vuoto spinto, come pretende Maurizio Crozza? Vediamo. Ha accompagnato il Pd dentro il socialismo europeo ma sarebbe dura definirlo socialista. Né democristiano: gli manca il pensiero lungo di Moro, il senso dello Stato di Scalfaro, quello della mediazione di Prodi. La sera in cui vinse le primarie, Renzi chiamò l’Italia «la bella addormentata». Bella, per natura e cultura, ma dormiente, incapace di scuotersi dal torpore, e di scrollarsi di dosso le piattole che la tormentano.
di Adriano Gizzi – Al di là delle simpatie o antipatie per il personaggio, ma anche al di là del giudizio sui modi e lo stile, dopo la manovra politica che ha portato Renzi a sostituire Letta alla presidenza del Consiglio tutti si sono posti la stessa domanda: perché? Cosa lo ha spinto? Cosa gli dà tanta sicurezza?
Il 26 febbraio scorso si è tenuto alla Fondazione Basso di Roma un incontro organizzato da Lunaria e Sbilanciamoci.info su «L’alba del renzismo». L’occasione è stata fornita dall’uscita di un inserto speciale del quotidiano il manifesto (il quarto di una serie intitolata «Sbilanciamo l’Europa») dedicato al «Renzismo in arrivo».
pubblicato da Laglasnost sul sito http://abbattoimuri.wordpress.com – Evviva! Evviva! Abbiamo la parità. Ora nel governo metà stronzate le diranno i maschi e l’altra metà le femmine. Salvo poi che se critichi una donna per le sue scelte politiche si dirà che la critichi in quanto donna e poi interverrà la presidenta della camera a raccontare che il sessismo, e ‘sti maschilisti, e bla bla bla. Perché l’esigenza istituzionale è quella di sconfiggere le pause. Bisogna arrivare dritti al dunque. Sono un governo in marcia per procurare una erezione in cui si smetta di godere a metà. Sicché godranno tutti e tutte. Tutori, tutrici, paternalisti, matriarche. Donniste all’avanguardia, quelle che festeggiano perché un traguardo è raggiunto. Purché sia donna. Anche se non sappiamo cosa dirà o farà. L’essere donna è dato come positivo di per se’. Siamo ottime. Noi non possiamo fare male. Noi siamo le vittime per antonomasia. Siamo madri, creatrici… com’era la canzone di one billion rising? E mentre coltiviamo il mito della fattezza perfetta della donnità politica e istituzionale il resto del mondo crepa, combatte e per fortuna ha imparato a capire che donna o uomo, se ordini la repressione o se gli affari vengono fatti in favore dei più ricchi, non c’é alcuna differenza.
di Rocco Luigi Mangiavillano – Gli anziani fragili della periferia est di Roma, tra Torre Spaccata e Tor Bella Monaca, in VI Municipio, da alcuni mesi sono letteralmente scesi in lotta per i propri diritti. Li ho incontrati la prima volta nel maggio scorso: tutti seduti in fila, composti, con i cartelli di protesta in mano e lo sguardo, mai rassegnato, di chi porta il peso e i segni del vissuto di una vita intera fatta di sacrifici e di onesto duro lavoro; con l’espressione di chi, sgomento, si sente tradito nel profondo della dignità umana poiché costretto alla solitudine e alla marginalità. I «vecchi» de «La Fata Carabina» e del «Belleville», due centri diurni intitolati in omaggio ai racconti di Pennac, avevano occupato, pacificamente per alcune ore, i locali del Municipio, inscenando una protesta silenziosa, ma densa di rabbia e di sdegno tale da superare ogni parola. Malgrado le difficoltà tipiche dell’età avanzata manifestavano, fieri, il loro dissenso per i tagli all’assistenza domiciliare e ai centri diurni per le fragilità e la non autosufficienza.
di Paolo Ferrero – La disoccupazione è il principale problema dell’Italia. Milioni di disoccupati, di precari e sottoccupati, di persone che hanno smesso di cercare lavoro. Poco meno di dieci milioni di persone non riescono ad avere un lavoro, non dico soddisfacente, ma semplicemente che gli permetta di vivere decentemente. Il governo dice che per uscire da questa situazione occorre abbassare le tasse sul lavoro, in modo da rendere più competitive le imprese e quindi aumentare l’occupazione. La cosa che non dice il governo è che la bilancia dei pagamenti è in attivo e cioè che l’Italia esporta più merci di quante ne importi. Questo significa che l’industria italiana riesce a stare decentemente sul mercato mondiale e che il problema non viene principalmente da lì.