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Viaggio papale nella terra di Abramo, cercando pace dopo le guerre

di Luigi Sandri

di Luigi Sandri. Redazione Confronti

Nel suo pellegrinaggio in Iraq, un Paese distrutto da decenni di guerree violenze, Francesco ha invitato tutti e tutte a ricostruire un Paese, in gran maggioranza musulmano, ove la base della convivenza sia però la cittadinanza, e non la religione. L’Incontro interreligioso ad Ur, patria di Abramo: ma il governo ha escluso gli ebrei.

Lo sguardo alle stelle che quattromila anni fa accompagnò l’arduo cammino di Abramo guiderà adesso i suoi discendenti, nella carne e/o nella fede, lungo la faticosa strada che porta alla pace? È questa la domanda – gravata da dubbi e inquietudini ma anche carica di speranza – che si impone dopo lo straordinario viaggio [5-8 marzo] che Francesco ha compiuto in Iraq, alla luce di uno slogan programmatico ineludibile: “Voi siete tutti fratelli”.

Un pellegrinaggio carico di simboli, di complicati aspetti religiosi, di aggrovigliati nodi geopolitici, di panorami apocalittici eredità delle recentissime guerre e violenze, ma anche di testimonianze impressionanti di perdono e di volontà di vita e di risurrezione. È un viaggio che realizza il sogno di Giovanni Paolo II che proprio ad Ur voleva recarsi, nel 2000, durante il Grande Giubileo di quell’anno; ma, soprattutto per le pressioni statunitensi, anche il rais Saddam Hussein infine si disse contrario, e l’ipotesi svanì.

L’INCONTRO CON IL GRANDE AYATOLLAH SCIITA
L’indomani del suo arrivo e sempre accompagnato da severissime misure di sicurezza, Bergoglio sabato 6 ha raggiunto Najaf – duecento km a sud di Baghdad – per una visita privata al Grand Ayatollah Sayyd Ali al-Husayni al-Sistani, novantenne leader della comunità sciita irachena, il quale all’arrivo dell’ospite si è alzato in piedi (il che abitualmente non fa). Dal punto di vista religioso-politico questo è stato il vertice del viaggio papale. Su 1,5 miliardi di musulmani nel mondo, in gran maggioranza sunniti, gli sciiti sono circa il 15%: massicciamente prevalenti in Iran, e maggioranza (65%) anche in Iraq [i sunniti sono al 30%]; ma tra lo sciismo dei due Paesi vi è una notevolissima differenza. Infatti, mentre quello che, con Khomeini, nel 1979 a Teheran ha proclamato una Repubblica islamica, e dunque ha un carattere teocratico perché il Grande Ayatollah è la “guida suprema” (Rahbar), anche politica, del Paese, quella irachena è una Repubblica parlamentare ove, formalmente, le autorità sciite non sono al governo.

Tuttavia, il Grande Ayatollah di Najaf ha una grandissima autorità morale su tutto il mondo musulmano perché è il custode della tomba di Ali (lo sposo di Fatima, la figlia di Muhammad), posta nella grande moschea dorata della città: da qui il particolare rispetto di moltissimi musulmani, anche non sciiti, per Najaf, dove, se possono, molti di loro vogliono la loro tomba nel locale amplissimo cimitero. Al-Sistani, in questi anni, si è opposto all’ascesa dell’Isis-Daesh del cosiddetto Stato islamico; e adesso, parlando con Francesco, ha ribadito che i fedeli di tutte le religioni devono avere in Iraq diritti costituzionalmente garantiti.

Sull’incontro, durato quarantacinque minuti, un comunicato vaticano ha poi precisato che il papa «ha sottolineato l’importanza della collaborazione e dell’amicizia fra le comunità religiose, perché si possa contribuire al bene dell’Iraq, della regione e dell’intera umanità».

Inoltre, egli ha ringraziato il Grande Ayatollah «perché, assieme alla comunità sciita, di fronte alla violenza e alle grandi difficoltà degli anni scorsi, ha levato la sua voce in difesa dei più deboli e perseguitati, affermando la sacralità della vita umana e l’importanza dell’unità del popolo iracheno». Il pontefice ha poi detto, su al-Sistani: «Ho sentito il dovere, in questo pellegrinaggio di fede e di penitenza, di andare a trovare un grande, un saggio, un uomo di Dio. A me ha fatto bene all’anima, questo incontro. È una luce».

In merito alle riserve che ambienti cattolici fanno al suo dialogo con i musulmani, egli – parlando con i giornalisti, sull’aereo di ritorno – ha precisato: «Ci sono alcune critiche: che il papa non è coraggioso, è un incosciente, che sta facendo dei passi contro la dottrina cattolica, che è a un passo dall’eresia… Ci sono dei rischi. Ma queste decisioni si prendono sempre in preghiera, in dialogo, chiedendo consiglio, in riflessione. Non sono un capriccio, e sono anche la linea che il Concilio [Vaticano II] ha insegnato».

Comunque, a proposito di questo dialogo, vi è una notevole differenza, ad alto livello, tra quello con i sunniti e quello con gli sciiti. Infatti, il 4 febbraio ’19, ad Abu Dhabi, Bergoglio aveva firmato il corposo Patto sulla Fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune insieme ad Ahamad al-Tayyib, Grande imam di Al-Azhar, il massimo centro religioso sunnita, che si trova al Cairo. Nessun documento, invece, a Najaf; anzi, nemmeno un pur breve Comunicato congiunto. Ci saranno, forse, in futuro, magari con altri protagonisti, se l’incontro tra quest papa e al-Sistani darà i frutti sperati.

LA FERITA DI UR DEI CALDEI
Abramo, scrive la Bibbia [Genesi, capp 11e 12], era di Ur, una località non lontana da Najaf. Dell’antico insediamento rimangono notevoli resti che, nel secolo scorso, hanno subito profondi restauri, inclusa la ziggurat sumerica, una struttura imponente visibile anche da molto lontano, e che dimostra l’importanza – un tempo – di quello snodo per le carovane. Là dunque egli ricevette l’ordine del Signore: «Vattene dalla tua patria, verso il paese che io ti indicherò». Poi, nella nuova terra di Canaan, avrà due figli, Ismaele dalla schiava egiziana Agar, ed Isacco dalla moglie Sarai: gli arabi si proclamano discendenti del primo, gli ebrei del secondo. Per i cristiani, Abramo è padre nella fede. Anche altre religioni si richiamano, in qualche modo, al patriarca.

Ad Ur, il 6 marzo, ha avuto luogo l’Incontro interreligioso. Dopo una lettura dal libro della Genesi e di un brano del Corano, e la testimonianza di una donna sabea mandea [religione monoteista che si richiama in parte al dualismo gnostico e in parte a Giovanni Battista] e di un musulmano, ha parlato il pontefice: «Qui, dove visse Abramo nostro padre, ci sembra di tornare a casa. Qui Dio chiese ad Abramo di alzare lo sguardo al cielo e di contarvi le stelle. In quelle stelle vide la promessa della sua discendenza, vide noi. E oggi noi, ebrei, cristiani e musulmani, insieme con i fratelli e le sorelle di altre religioni, onoriamo il padre Abramo… Da questo luogo sorgivo di fede, affermiamo che Dio è misericordioso e che l’offesa più blasfema è profanare il suo nome odiando il fratello. Ostilità, estremismo e violenza non nascono da un animo religioso: sono tradimenti della religione. E noi credenti non possiamo tacere quando il terrorismo abusa della religione».

Quindi, i presenti tutti insieme hanno recitato la Preghiera dei figli di Abramo: «Dio Onnipotente, Creatore nostro che ami la famiglia umana e tutto ciò che le tue mani hanno compiuto, noi, figli e figlie di Abramo appartenenti all’ebraismo, al cristianesimo e all’islam, insieme agli altri credenti e a tutte le persone di buona volontà, ti ringraziamo per averci donato come padre comune nella fede Abramo, figlio insigne di questa nobile e cara terra… Ti ringraziamo per il suo esempio di uomo di fede che ti ha obbedito fino in fondo, lasciando la sua famiglia, la sua tribù e la sua patria per andare verso una terra che non conosceva. Ti ringraziamo perché, benedicendo il nostro padre Abramo, hai fatto di lui una benedizione per tutti i popoli… Apri i nostri cuori al perdono reciproco e rendici strumenti di riconciliazione, costruttori di una società più giusta e fraterna… Sostieni le nostre mani nella ricostruzione di questo Paese, e dacci la forza necessaria per aiutare quanti hanno dovuto lasciare le loro case e loro terre a rientrare in sicurezza e con dignità, e a iniziare una vita nuova, serena e prospera».

In tutta questa scena altissimamente simbolica, vi è stata però una stonatura: non vi era nessun ebreo, almeno a livello pubblico. Malgrado le pressioni della Santa Sede, il governo iracheno – hanno scritto vari media internazionali – si è infatti opposto all’ipotesi, adducendo, come motivo, la mancanza di rapporti diplomatici tra Iraq e Israele. Ma si poteva – a livello religioso, storico e simbolico – ignorare la millenaria e incancellabile presenza ebraica nella vicenda mesopotamica, e anche la “cronaca” degli ultimi cento anni, che la vede intrecciata con la nascita del moderno Paese? Dopo la formazione, nel 1948, dello Stato di Israele, la situazione degli ebrei iracheni – circa 140mila – divenne sempre più aspra; essi, “legalmente” depredati, dovettero infine fuggire. Oggi si ritiene che in Iraq ne sia rimasto solo un centinaio.

LE ANTICHE CHIESE ORIENTALI
Fino al 2003, prima dell’invasione anglo-americana dell’Iraq, e undici anni prima che il 5 luglio 2014, proprio nella moschea al-Nuri di Mosul – Kurdistan iracheno – Abu Bakr al-Baghdadi venisse proclamato “Califfo” dello Stato islamico dell’Iraq e del Levante, i cristiani erano 1,5 milioni; adesso, dopo le devastazioni terrificanti provocate dall’Isis-Daesh, e che Francesco ha visto con i suoi occhi, essi sono, al massimo, trecentomila: molti uccisi, moltissimi fuggiti.

Il papa ha incontrato i capi di tutte le Chiese: non solo i cattolici – caldei, guidati dal patriarca e cardinale Luis Sarko, l’ispiratore del viaggio papale: essi sono nati nel 1553 con una scissione dai “nestoriani” (siri, armeni, melkiti, latini) –, ma anche gli altri. Particolarmente importante l’incontro con Mar Gewargis III, catholicos patriarca della Chiesa assira dell’Oriente. Questa, di origine apostolica, erede delle sedi di Seleucia e Ctesifonte (antiche città a sud di Baghdad), nel V secolo fece propria la teologia cristologica di Nestorio – condannata dai Concili di Efeso del 431 e di Calcedonia del 451, normativia per latini e bizantini). Di fatto si sviluppò lontana dal potere di Costantinopoli: e nei secoli riuscì a creare una serie di diocesi lungo la via della seta, arrivando fino in Cina; una presenza scomparsa ormai da sttecento anni. Raggiunse anche il Malabar, la costa occidentale dell’India, dove esiste ancor oggi. Spesso perseguitata, nel secolo scorso questa Chiesa ebbe una forte emigrazione negli Stati Uniti d’America, dove per alcuni decenni si trasferì il suo catholicos che, ora, cerca di rimettere radici in Iraq. Nel 2018 Francesco e Gewargis hanno firmato a Roma una Dichiarazione comune: « Certe nostre differenze nelle espressioni teologiche spesso sono complementari piuttosto che confliggenti»; ed espresso la speranza di giungere a celebrare insieme l’Eucaristia.

Rispetto al futuro, due sono le ipotesi per i cristiani: concentrarsi nella piana di Ninive, che diverrebbe un Christianistan, oppure tornare – disseminati – nelle varie zone di origine? Comunque, a tutti loro, identico l’invito di Francesco: perdonare le offese ricevute; tendere la mano ai più bisognosi (egli ha ricordato più volte la violenza tremenda con la quale l’Isis-Daesh ha cercato di eliminare gli yazidi e i curdi).

All’intero Iraq – in gran maggioranza musulmano – l’invito è stato di ri-costruire un paese dove base dei diritti di tutti sia la cittadinanza, non la religione (e il rapporto religione-violenza, a detta di molti osservatori, ora dovrà essere criticamente più approfondito). Ha lodato particolarmente le donne che, in questi anni difficilissimi, sono riuscite a difendere la vita. Ha cercato ovunque di dare consolazione. Ha ribadito: «La fraternità è più forte del fratricidio»; «Il terrorismo è contro il piano di Dio». Infine, alla Comunità internazionale, un pressante invito: «Tacciano le armi» – provenienti dall’estero! E chi le invia?, si è chiesto Bergoglio – che nel Paese hanno portato morte e devastazione. Saranno accolte queste parole, e sciolti gli aggrovigliati nodi, religiosi e politici, dell’Iraq?

Il ritorno ad Ur comincia adesso, per inverare un “patto di Abramo” che renda onore e giustizia ad ogni religione ed a ogni popolo che si richiama alla sua eredità.

Ph © Aziz1005

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Luigi Sandri

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