di Luigi Sandri. Redazione Confronti
Nei mesi di aprile-maggio-giugno si sono addensati nella Chiesa romana una serie di eventi – distinti – che convergono però nel mettere in evidenza una profondissima crisi. Questa, per essere superata, impone radicali cambiamenti. Basterà un Sinodo per questo, o occorre un Concilio che rimetta in discussione princìpi dogmatici figli della storia e non della volontà di Dio?
Primavera intensa, nella Chiesa cattolica romana, in questo anno del Signore 2021: a livello del miliardo e trecento milioni di donne e uomini che la compongono, la vita è continuata come sempre, tesa tra le difficoltà dell’esistenza e la gioia di provare a incarnare il Vangelo di Gesù nelle più diverse situazioni culturali e geopolitiche. È questa vita, che noi non possiamo scandagliare, ma che sappiamo esistere, che fa della Chiesa, Chiesa. Lasciando sullo sfondo questa rete insostituibile, vorremmo qui analizzare una serie di eventi che, a livello di istituzione, mostrano i segni della crisi e anche, sprazzi di speranza per superarla.
Ovviamente, la nostra analisi non è, né può essere, esaustiva; offre alcuni dati, parziali. Non affrontiamo, ad esempio, la gravissima situazione del Canada dove – in maggio/giugno – con la scoperta di una fossa comune con 215 resti di bambini e giovincelli sono emerse prove schiaccianti delle violenze che anche esponenti della Chiesa cattolica (come della anglicana) hanno compiuto, durante un secolo, e fino a pochi decenni fa, contro le Prime Nazioni, e gli Inuit, i cui figli venivano strappati alle famiglie, per essere “educati alla civiltà” in Residential schools dove subivano violenze, anche sessuali. Papa Francesco, seppure richiesto dal premier di Ottawa, Justin Trudeau, di andare personalmente in Canada a presentare, a nome della Chiesa cattolica, le sue scuse ufficiali, non ha accolto la richiesta.
Le dimissioni, respinte dal papa, del cardinale Marx
Un Marx – Karl – con le sue tesi rivoluzionarie in campo economico sociale scosse il mondo, e la Chiesa romana, nel XIX secolo; un altro Marx – Reinhard – all’alba del XXI secolo scuote ora il pontificato di Francesco e pone al Collegio cardinalizio una questione radicale che, nel giorno “x”, peserà nel e sul conclave chiamato a eleggere il successore di Jorge Mario Bergoglio.
Classe 1953, dal 2007 arcivescovo di Monaco e Frisinga per volontà di Benedetto XVI, cardinale dal ‘10, dal 2014 al ’20 presidente della Conferenza episcopale tedesca (Dbk), Reinhard Marx è stato l’anima del Synodaler Weg, il “cammino sinodale” voluto per affrontare, con spirito di penitenza e coraggio di analisi, lo shock esploso in Germania per lo scandalo, sempre più esteso, della pedofilia del clero. L’iniziativa, partita due anni fa, sponsorizzata dalla Dbk, trainata dal porporato, e dal Comitato centrale dei cattolici tedeschi (ZdK), si è sviluppata in quattro forum dedicati ad altrettante problematiche: Potere, partecipazione, divisione dei poteri nella Chiesa; Morale sessuale (persone divorziate ed Eucaristia, unioni civili, benedizioni di coppie omosessuali); Vita sacerdotale (con richiesta di ridiscussione dell’obbligo del celibato); Donne nei servizi e nei ministeri della Chiesa (con possibile proposta del diaconato femminile e, forse, del ministero presbiterale per le donne).
Le date delle Assemblee dove i/le 230 sinodali avrebbero votato i vari schemi erano state ben stabilite; ma il Covid ha messo tutto in discussione; adesso, forse in autunno si inizierà a votare. Ma, seppur azzoppato dalla pandemia, il Synodaler Weg non si è spento; e le segnalazioni degli orientamenti che si andavano profilando hanno assai allarmato alcuni dicasteri della Curia romana (Congregazione dei vescovi, guidata dal cardinale Marc Ouellet, e Pontificio Consiglio per i testi legislativi, guidato da monsignor Filippo Iannone), che si sono affrettati a precisare: sarebbero state ritenute inaccettabili proposte che violassero normative valide per l’intera Chiesa latina (come l’obbligo del celibato sacerdotale).
ll papa, da parte sua, il 29 giugno ’19 aveva inviato una Lettera al Popolo di Dio che è in cammino in Germania: scritta in spagnolo – forse per sottolineare che era tutta farina del suo sacco, e non un vademecum della Curia – essa esaltava la sinodalità ma, anche, di fatto esortava a non correre troppo, isolandosi dalla Chiesa universale; e non toccava esplicitamente nessun argomento tabù. Perciò essa permise sia ai “progressisti” che ai “conservatori” di utilizzarla per tirare l’acqua al proprio mulino.
In questo sfondo si colloca la lettera che Marx ha scritto a Francesco il 21 maggio di quest’anno e che, con il suo permesso, ha reso nota il 4 giugno. Siamo arrivati a un “punto morto”, afferma il porporato, precisando: «Sono giunto alla conclusione di pregarLa di accettare la mia rinuncia all’ufficio di arcivescovo di Monaco e Frisinga. Sostanzialmente per me si tratta di assumersi la corresponsabilità relativa alla catastrofe dell’abuso sessuale perpetrato dai rappresentanti della Chiesa negli ultimi decenni. Le indagini e le perizie degli ultimi dieci anni mi dimostrano costantemente che ci sono stati sia dei fallimenti a livello personale che errori amministrativi, ma anche un fallimento istituzionale e “sistemico”. Le polemiche e discussioni più recenti hanno dimostrato che alcuni rappresentanti della Chiesa non vogliono accettare questa corresponsabilità e pertanto anche la con-colpa dell’Istituzione. Di conseguenza rifiutano qualsiasi tipo di riforma e innovazione per quanto riguarda la crisi legata all’abuso sessuale».
Vastissimo l’eco, e non solo in Germania, della lettera; definendola “inattesa”, monsignor Georg Bätzing, vescovo di Limburg e attuale presidente della Dbk, si è chiesto come potrebbe procedere il Synolader Weg se in esso mancasse una guida come Marx; “coraggiosa” l’ha considerata monsignor Eric de Moulins-Beaufort, vescovo di Reims e presidente della Conferenza episcopale francese; totale silenzio, invece, da parte di quella italiana.
Che avrebbe fatto, il papa? L’attesa non è stata lunga; Francesco ha risposto il 10 giugno, in italiano: «Caro fratello, prima di tutto grazie per il tuo coraggio. È un coraggio cristiano che non teme la croce, non teme di umiliarsi di fronte alla tremenda realtà del peccato… Sono d’accordo con te nel definire catastrofe la triste storia degli abusi sessuali e il modo di affrontarlo che ha adottato la Chiesa fino a poco tempo fa… Dobbiamo farci carico della storia, sia personalmente sia comunitariamente. Non si può rimanere indifferenti dinanzi a questo crimine».
A proposito poi sul “che fare”: «Ogni riforma comincia da sé stessi. La riforma nella Chiesa l’hanno fatto uomini e donne che non hanno avuto paura di entrare in crisi e lasciarsi riformare dal Signore. È l’unico cammino, altrimenti non saremo altro che “ideologi di riforme” che non mettono in gioco la propria carne». Quindi, lodando Marx per aver deciso di «continuare a impegnarmi a livello pastorale sempre e comunque lo riterrà sensato ed opportuno», ecco la conclusione di Francesco: Continua quanto ti proponi, ma come arcivescovo di München und Freising».
A chiudere sul fronte romano – per ora! – il caso Marx c’è stata, il 24 giugno, l’udienza di Bergoglio a Bätzing, nella quale di esso certamente si sarà parlato, anche se non sappiamo in che termini. In una intervista a Vatican News il presidente della Dbk ha detto che Francesco, «ben informato sulla situazione della Chiesa in Germania, si augura che le tensioni possano essere superate”. Poi il prelato «ha voluto rassicurare il pontefice sul fatto che l’episcopato da lui guidato non ha intenzione di percorrere “strade speciali” sui temi al centro del cammino sinodale, come la crisi degli abusi del clero, la mancanza di vocazioni, il celibato sacerdotale, la dottrina sessuale cattolica, il ruolo delle donne e via dicendo».
Singolarissime parole: vogliono dire che il Synodaler Weg fa marcia indietro, e non affronterà davvero i “temi tabù”? Ipotesi che farebbe deflagrare la Chiesa tedesca. Più realisticamente si può ritenere che l’accordo col pontefice sia stato questo: «Imboccate le strade che volete, decidete come vi pare sui temi critici, ma accettando una condizione invalicabile: quelle vostre scelte siano presentate come proposte non attuabili, e da tenere in frigorifero, fino a che il papa, o un Sinodo generale da lui convocato, non deliberino in proposito». Appuntamento, dunque al futuro: per ora, i tedeschi, pazientino!
Insomma, Bergoglio appare deciso, fin che vive, a non attuare reali riforme istituzionali e normative nella Chiesa romana, quali sarebbero necessarie per inverare i “voti” di Assemblee come quella tedesca, o come le analoghe proposte che potrebbero arrivare dal Concilio plenario australiano che entrerà nel vivo dei lavori in autunno.
Un’ardua decifrazione. Il caso Woelki. I numeri della vergogna
Quale era il vero bersaglio che Marx voleva colpire, col suo gesto? Svariate le interpretazioni; per lo più, in Germania, esso è stato visto come il tentativo di smuovere le acque all’interno della Dbk e, anche, spronare i/le sinodali a proseguire con grinta. Ma se, secondo alcuni, egli rimproverava una parte, minoritaria ma tenace, della Dbk – quella guidata dall’arcivescovo di Colonia, cardinale Rainer Maria Woelki – di non trarre le dovute conseguenze dallo scandalo della pedofilia del clero, e quindi di ostacolare le riforme ecclesiali volute dai più, per altri analisti Marx denunciava il papa stesso come il vero responsabile se la Chiesa era giunta a un “punto morto”, in quanto Francesco era ritenuto ostile alle rivendicate riforme.
Da parte sua, in Italia lo storico della Chiesa Alberto Melloni, su La Repubblica del 15 giugno, ha commentato: «Dimettendosi per denunciare l’inerzia della Chiesa, Marx ha di fatto chiesto le dimissioni del papa. Insegnando a Francesco come si “assume la colpa”, gli ha imputato impotenza in quei metodi spicci che, diventati l’unica cura dell’omertà sui crimini pedofili, non possono più discernere fra calunnie e denunce».
Altri invece ritengono, e la loro opinione ci sembra convincente, che Marx – a prescindere da eventuali dimissioni di Francesco, comunque “impossibili” (salvo malattia) fin che resta in vita Joseph Ratzinger – abbia lanciato un grido al prossimo conclave, e indicato un programma di pontificato, se si vuole che la Chiesa romana esca dall’attuale “punto morto”.
Tutte queste interpretazioni debbono comunque fare i conti con un altro fatto, che riguarda al tempo stesso la Germania e il Collegio cardinalizio (e, in prospettiva, il conclave). Infatti negli stessi giorni nei quali accadevano le vicende di cui stiamo parlando, il 28 maggio è stata annunciata una Visita apostolica voluta dal papa nell’arcidiocesi di Colonia per avere un quadro completo della questione degli abusi. L’avrebbero guidata il cardinale Anders Arborelius, vescovo di Stoccolma, e monsignor Johannes van den Hende, vescovo di Rotterdam e presidente della Conferenza episcopale olandese. «Nel corso della prima metà di giugno – afferma una lettera della Nunziatura apostolica a Berlino – gli inviati della Santa Sede si faranno un quadro globale della complessa situazione pastorale dell’arcidiocesi e al tempo stesso esamineranno eventuali errori commessi dal cardinale Woelki, nonché dell’arcivescovo di Amburgo, monsignor Stefan Heße, e dagli ausiliari (di Colonia) mons. Dominikus Schwaderlapp e Ansgar Puff, riguardo a casi di abusi sessuali”. Woelki ha accolto con favore l’iniziativa papale; ma i “visitatori” non hanno rilasciato dichiarazioni, al termine del loro lavoro.
Il 18 marzo scorso era stato presentato il Rapporto indipendente sulla lotta agli abusi sessuali nell’arcidiocesi di Colonia, commissionato a ottobre 2020 dallo stesso Woelki, e frutto di un’indagine svolta dallo studio legale Gercke & Wollschläger. Il documento, di oltre 800 pagine, copre il periodo che va dal 1975 al 2018 con l’obiettivo – precisava Vatican News – di identificare eventuali mancanze e violazioni legali esistenti, nonché i responsabili. In particolare, il Rapporto riferisce di 314 vittime di abusi sessuali, tutti minori tranne uno, e di 202 aggressori, di cui quasi due terzi appartenenti al clero.
Questi numeri vanno inquadrati in una inchiesta, voluta dalla Dbk, ma affidata a tre università, sugli abusi sessuali contro minori, compiuti in Germania tra il 1946 e il 2014 da chierici o da persone legate agli apparati ecclesiastici, e adesso resi parzialmente noti: secondo questo studio indipendente, nel periodo esaminato 3.677 bambini, ragazzi e ragazze minorenni hanno subito abusi sessuali da parte di 1.670 preti o religiosi; e solo 122 violentatori sarebbero stati assicurati alla giustizia; per lo più i vescovi coprirono i preti abusatori.
È vero, notano quanti fanno queste inchieste, che violenze sessuali su minori si fanno soprattutto nella società e in famiglia: ma se queste avvengano in istituzioni ecclesiastiche e compiute da persone “sacre” alle quali i genitori avevano affidato con piena fiducia i loro figli, sono particolarmente sconvolgenti e tali da minare alla radice la credibilità della Chiesa cattolica.
La pastorale americana
José Ignacio Gómez, di origine messicana, classe 1951, appartenente alla Prelatura personale dell’Opus Dei, per volontà di Benedetto XVI nel 2011 divenne arcivescovo di Los Angeles. Nel 2019 è stato eletto presidente della Conferenza dei vescovi cattolici degli USA (Usccb) e, in questa carica, si è dato molto da fare per la difesa dei “princìpi non negoziabili” (cari a Giovanni Paolo II e, in Italia, al cardinale Camillo Ruini). Perciò, in vista delle elezioni presidenziali statunitensi del novembre ‘20 si era espresso negativamente contro il candidato democratico Joe Biden, cattolico praticante, reo – suo parere – di essere pro choice, cioè favorevole alla legge sull’aborto; di conseguenza faceva capire di votare, e far votare, per Trump, deciso a ridimensionare quella legge “liberal”. Biden si diceva personalmente contrario all’aborto ma, come politico, favorevole alla sua regolamentazione per legge: una distinzione inammissibile per Gómez.
Una volta che Biden è entrato alla Casa bianca, il capo dei vescovi statunitensi ha riaperto la questione, sostenendo che si doveva negargli la comunione, ove si presentasse in una Eucaristia per ricevere l’ostia. A nome del papa, lo stesso prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, cardinale Luis Francisco Ladaria Ferrer, è intervenuto per far desistere Gómez dalle sue posizioni. D’altronde, a evidenziare la spaccatura della Usccb, il cardinale Blase Joseph Cupich, arcivescovo di Chicago, ha espresso pubblicamente il suo dissenso dal confratello; e il cardinale Wilton Daniel Gregory, arcivescovo di Washington, ha detto che nella sua diocesi Biden può tranquillamente accostarsi alla comunione.
Con questi precedenti, dal 16 al 18 giugno ’21 si è svolta, in modalità on line, l’assemblea plenaria della Conferenza episcopale che, infine, con 168 “sì”, 55 “no” e 6 astenuti ha deciso di affidare al proprio Comitato per la dottrina la stesura di una dichiarazione formale sul significato dell’Eucaristia nella vita della Chiesa. Ha commentato L’Osservatore Romano [19-6]: «Indiscrezioni sul contenuto del dibattito parlano di un documento che, probabilmente a novembre, verrà sottoposto all’esame dell’episcopato: esso dovrebbe contenere, tra l’altro, una sorta di monito ai politici cattolici e ad altre figure pubbliche che non rispettano l’insegnamento della Chiesa sull’aborto e su altre questioni dottrinali fondamentali. Nessuna imposizione di politiche nazionali, piuttosto delle linee-guida che lascerebbero ampio spazio alla discrezionalità». Si vedrà: d’altronde da oggi all’autunno molte cose potrebbero accadere nell’àmbito della Chiesa cattolica statunitense, e in Vaticano.
La pastorale concordataria italiana.
Dopo che nel contesto giuridico statunitense, assai diverso dal nostro, è esplosa la questione dei rapporti Chiesa-Stato quando intrecciano problemi etici, ecco che essa è brillata come una mina, anche in Italia, il 22 giugno. Quel giorno, infatti, è stata resa pubblica una Nota verbale consegnata cinque giorni prima all’Ambasciata d’Italia presso la Santa Sede, e firmata da monsignor Paul Richard Gallagher, segretario della Segreteria di Stato per i Rapporti con gli Stati (insomma il ministro degli esteri vaticano). Essa sostiene che il disegno di legge Zan contro la omotransfobia – approvato dalla Camera in novembre e ora in procinto di essere discusso al Senato – contiene norme che «riducono la libertà garantita alla Chiesa cattolica dal Concordato», quello del 1984, che “rivede” l’antecedente, del 1929. Il ddl, secondo il Vaticano, costringerebbe anche le scuole paritarie cattoliche a propagandare idee contrarie alla dottrina cattolica, opponendosi così frontalmente al Concordato. Con la Nota verbale — scrive L’Osservatore Romano – «si auspica una diversa modulazione del disegno di legge», ma nessuno chiede «un blocco» dello stesso.
Poteva, la Santa Sede, agire come ha agito? Ma certo, afferma il cardinal Ruini: «Il testo di revisione del Concordato riconosce alla Chiesa cattolica la piena libertà di svolgere il proprio Magistero». Quindi giudica l’intervento del Vaticano come legittimo? «Certamente, ed è il segno dell’importanza che la Santa Sede attribuisce alla questione»: e accusare papa Francesco di ingerenza «sarebbe un’accusa non giustificata. Di accuse di questo genere sono stato bersaglio anch’io in molte occasioni; ma difendere i propri diritti, in particolare la libertà della Chiesa, è un dovere e non un’ingerenza» [Repubblica 23-6].
Del tutto opposta l’opinione del professor Francesco Margiotta Broglio, presidente della Commissione governativa che negli anni Ottanta del secolo scorso portò alla revisione dei Patti Lateranensi: «Il Concordato non prevede assolutamente nulla che possa essere invocato per bloccare un disegno di legge come il ddl Zan. La Chiesa può portare avanti una legittima battaglia politica attraverso la sua influenza su deputati e senatori, ma il Concordato regola i rapporti con lo Stato, non c’entra niente. Faranno testo solo le maggioranze parlamentari».
Le argomentazioni della Chiesa sono infondate?». «Non dico questo, perché alle scuole private cosiddette di tendenza, come quelle cattoliche, nessuno può imporre una giornata festiva, che sia per celebrare il contrasto all’omofobia o per altro. Ma non c’è bisogno di scomodare il Concordato, se la legge fosse approvata così com’è sarebbero le scuole a dover rivendicare la propria libertà di scelta e in quel caso la legge potrebbe finire alla Consulta. Ma non è compito del Vaticano. Questo mi fa pensare che il vero motivo della levata di scudi della Chiesa sia un altro». Cioè? «Sappiamo che la Chiesa ha al suo interno problemi enormi nel gestire i continui scandali legati all’omosessualità. Fossero rimasti in silenzio, poteva lasciare immaginare che volessero tenersi lontani dal tema, come se avessero la coda di paglia o fossero conniventi» [Il Fatto Quotidiano, 23-6].
«Ci sorprende e ci preoccupa – ha dichiarato da parte sua il pastore Luca Maria Negro, presidente della Federazione delle Chiese evangeliche in Italia – l’iniziativa della Segreteria di Stato vaticana, che avrebbe formalmente chiesto una revisione del Ddl Zan in materia di omotransfobia perché il testo all’esame del Senato violerebbe “l’accordo di revisione del Concordato”. Come evangelici italiani esprimiamo la nostra ferma critica a questa iniziativa che si configura come una vera e propria interferenza del Vaticano nei confronti della libera determinazione del Parlamento italiano e costituisce essa stessa una violazione dell’articolo 7 della Costituzione che sancisce che “Stato e Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani”»
Per il presidente FCEI, “il ddl Zan non limita in alcun modo la possibilità della Chiesa cattolica o di altri soggetti di impartire liberamente il proprio insegnamento morale ma si limita a punire chi propaganda ovvero istiga a commettere o commette atti di discriminazione fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere o sulla disabilità. La norma, difatti, non limita né sanziona un insegnamento, un precetto o un’idea ma la propaganda o l’istigazione di un atto di discriminazione. Si tratta di una distinzione essenziale e per questo, con la massima fraternità ecumenica, ci permettiamo di invitare i vertici vaticani a considerare questa norma con uno spirito protettivo e amorevole nei confronti delle vittime di discriminazioni fondate sull’orientamento sessuale o sulle disabilità».
Draghi replica al Vaticano
«L’Italia è uno Stato laico»: così il premier ha iniziato – al Senato, il 23 giugno – la sua risposta a una domanda sulla Nota verbale di Gallagher, che tanta eco aveva avuto sui media e nei partiti. « È uno Stato laico, non uno Stato confessionale. Il nostro ordinamento contiene tutte le garanzie per rispettare gli impegni internazionali tra cui il Concordato. Ci sono controlli preventivi nelle commissioni parlamentari. Ci sono controlli successivi nella Corte costituzionale». In quanto poi al contenuto del ddl Zan, ha precisato: «Il Governo non entra nel merito della discussione. Questo è il momento del Parlamento, non è il momento del governo». Dunque, se il Senato volesse tener conto di alcuni desiderata d’Oltretevere, lo potrebbe autonomamente fare.
La maggioranza dei presenti ha applaudito il premier; ma, in questa sede, non entriamo nell’esame delle reazioni dei partiti, in Senato o in dichiarazioni alla stampa. In sintesi: il centro-sinistra si è detto velatamente o esplicitamente critico dell’intervento (o “interferenza”?) della Santa Sede; il centro-destra, invece, è parso orgoglioso di schierarsi con essa, a dimostrazione di chi siano davvero i “bravi cattolici” che – sottinteso – andranno votati alle prossime elezioni, forse alla luce di un nuovo slogan: “Prima il Vaticano, poi l’Italia”.
Ma torniamo sulla Nota, dove si è questo passaggio: «Ci sono espressioni della Sacra Scrittura e delle tradizioni ecclesiastiche del magistero autentico del Papa e dei vescovi, che considerano la differenza sessuale secondo una prospettiva antropologica che la Chiesa cattolica non ritiene disponibile perché derivata dalla stessa Rivelazione divina». Parole potenzialmente deflagranti, perché tentano di coinvolgere il Parlamento di uno Stato laico in una questione teologica che nulla ha a che far con il ddl Zan.
È poi intervenuto (il 24 giugno) il cardinale segretario di Stato, Pietro Parolin, dicendo di essere del tutto d’accordo con Draghi che affermava la laicità dello Stato italiano; ma poi il porporato ha ribadito il diritto del Vaticano di dire la sua sul ddl contestato, così aggiungendo confusione a confusione. Infatti, molti giuristi hanno trovato, nelle sue parole, la conferma che quella della Santa Sede è stata una vera e inaccettabile “interferenza”; il numero due d’Oltretevere può tuttavia consolarsi, perché i partiti del centro-destra si sono schierati con lui. Parolin ha poi confermato, di fatto, che il papa sapeva della Nota verbale, e che ha approvato l’iniziativa: preziosa informazione per quanti dipingono il papa sempre “buono”, purtroppo circondato da una Curia “cattiva”.
Meraviglia comunque che nel dibattito – pur spesso arroventato – suscitato dal ministro degli esteri vaticano si sia quasi dimenticata la storia. Ricapitoliamo, dunque. L’articolo uno del Trattato lateranense del 1929, voluto da Pio XI e da Mussolini, affermava: «L’Italia riconosce e riafferma il principio consacrato nell’articolo 1° dello Statuto del Regno del 4 marzo 1848, pel quale la religione cattolica, apostolica e romana è la sola religione dello Stato». Più chiaro di così!
Una tale affermazione creerà non pochi problemi alla Costituente. Infine, arriverà la Magna Charta. Art. 7: «Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani. I loro rapporti sono regolati dai Patti Lateranensi. Le modificazioni dei Patti, accettate dalle due parti non, richiedono procedimento di revisione costituzionale». Art. 8: «Tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge. Le confessioni religiose diverse dalla cattolica hanno diritto di organizzarsi secondo i propri statuti, in quanto non contrastino con l’ordinamento giuridico italiano. I loro rapporti con lo Stato sono regolati per legge sulla base di intese con le relative rappresentanze».
Evidentemente, vi era qualche stridore nella Costituzione, immettendo l’articolo 7 che, a sua volta, sostanzialmente faceva sua lo Statuto di Carlo Alberto, del 1848, che prevedeva il Cattolicesimo come religione di Stato. E così il 18 febbraio 1984 – era premier, allora, Bettino Craxi, e segretario di Stato vaticano il cardinale Agostino Casaroli – si arriverà dopo altri tentativi falliti, alla revisione del Concordato del 1929, motivata, questa, dagli sviluppi culturali avvenuti nella società italiana negli ultimi decenni e, nella Chiesa cattolica, dalla celebrazione del Concilio Vaticano II. Un insieme di impressionanti “novità” che avevano portato il Paese a un mutamento di 180 gradi.
Data tale consapevolezza, nel Protocollo addizionale dell’Accordo si stabilirà una notevolissima “variante” giuridico-politica, a proposito dei rapporti Stato/Chiesa cattolica: «Si considera non più in vigore il principio, originariamente richiamato dai Patti Lateranensi, della religione cattolica come sola religione dello Stato italiano». Ma a tutt’oggi, nella mentalità di molti politici, che sperano di far carriera presentandosi come paladini della “dottrina cattolica” (che pur è cambiata!), e nella testa di molti chierici a cui fa comodo dimenticare la storia per trarne vantaggio, si agisce e si parla come se fosse ancora in vigore lo Statuto albertino richiamato dal Trattato lateranense.
Le meraviglie del futuro Sinodo dei vescovi
Del tutto lontana da queste vicende ma, infine, legata a esse come “cornice” in cui dibattere i temi teologici e gli aspetti politici ricordati, e molti altri possibili, sta la riforma del “processo sinodale” che in futuro dovrebbe caratterizzare il cammino della Cattolicità.
Una premessa è necessaria, per introdurre il discorso. Sul finire del Vaticano II, che molto aveva insistito sulla “collegialità episcopale”, nel 1965 Paolo VI istituì il Sinodo dei vescovi, come organo permanente con cui l’episcopato mondiale poteva consigliare il romano pontefice: l’organismo avrebbe potuto essere anche “deliberativo” ma, finora, tutte le varie Assemblee – una trentina – sono state “consultive”.
Nelle sue diverse tipologie – Assemblee generali, straordinarie, speciali (riservate a una determinata nazione o zona) che, secondo il tipo, possono avere da una ventina a oltre 250 “padri” – il Sinodo è composto in massima parte da vescovi eletti dalle varie Conferenze episcopali del mondo (113, oggi); talora vi è qualche prete, o religioso; nessuna donna, finora. La procedura, dopo qualche anno di rodaggio, si è assestata così: il papa, sentito un Consiglio eletto dal precedente Sinodo, decide il tema del prossimo; ascoltate le Conferenze episcopali, la Segreteria del Sinodo (oggi guidata dal cardinale maltese Mario Grech) elabora un Documento preparatorio; in base alle risposte redige poi l’Instrumentum laboris, il testo-base da cui partirà il dibattito in Sinodo che, di solito, dura sulle tre settimane. L’Assemblea, infine, si conclude votando una serie di “proposizioni” da presentare al papa che, nel suo documento post-sinodale, rimane libero di accoglierle o no. Così nell’ottobre del 2019, il Sinodo per la Regione Panamazzonica, con oltre i due terzi dei voti, aveva domandato a Francesco la facoltà di ordinare preti, nelle foreste amazzoniche, diaconi già sposati. Ma nella Querida Amazonia, l’esortazione post-sinodale del febbraio 2020, Bergoglio ha ignorato la proposta.
Il pontefice, intanto, già pensava al futuro, e proponeva di celebrare un’Assemblea generale del Sinodo nell’ottobre del ’22, dedicata a questo tema: Per una Chiesa sinodale: comunione, partecipazione e missione. Ma, nell’aprile del ’21, non solo ha “posposto” la data dell’incontro all’ottobre ’23, ma ne ha profondamente mutato le procedure, nel contesto di un “processo” che innervi un fin qui atipico cammino ecclesiale.
Il percorso per la celebrazione della prossima Assemblea, precisato in un ampio testo reso noto da Grech, si articolerà in tre fasi, tra l’ottobre del 2021 e l’ottobre del ‘23: prima una fase diocesana, poi continentale, per giungere infine a quella conclusiva, a livello di Chiesa universale. L’articolazione delle differenti fasi del processo sinodale renderà così possibile – questo l’auspicio – la partecipazione di tutti i fedeli al processo sinodale; insomma, si prospetta «non solo un evento, ma un processo che coinvolge in sinergia il Popolo di Dio, il Collegio episcopale e il vescovo di Roma, ciascuno secondo la propria funzione».
L’apertura del Sinodo avrà luogo tanto in Vaticano quanto in ciascuna diocesi del mondo. Il cammino sarà inaugurato dal papa, a Roma, il 9-10 ottobre 2021. Con le medesime modalità, domenica 17 ottobre, si aprirà nelle singole diocesi, sotto la presidenza del rispettivo vescovo. L’obiettivo di questa fase «è la consultazione del Popolo di Dio – come prevede la costituzione apostolica sul Sinodo, Episcopalis Communio, del 2018 – affinché il processo sinodale si realizzi nell’ascolto della totalità dei battezzati, soggetto del sensus fidei infallibile in credendo». Dunque ogni diocesi, in ogni continente, partendo da un vademecum inviato dalla Segreteria generale del Sinodo, appronterà le modalità per sentire davvero le opinioni dei propri fedeli e, infine, invierà le sue conclusioni alla Conferenza episcopale nazionale. Questa esaminerà tutto il materiale, e poi inoltrerà a Grech le sue conclusioni.
Si ascolteranno anche le proposte dei dicasteri della Curia romana, delle Facoltà teologiche, delle Unioni dei Superiori generali, e delle Superiori generali, e dei movimenti internazionali dei laici. Sulla base di questo amplissimo materiale, la Segreteria generale procederà, entro settembre ’22, e appronterà il primo Instrumentum Laboris che servirà, a livello continentale, ad approfondire il tema. Quindi, le diverse Conferenze episcopali continentali invieranno a Roma le loro conclusioni entro il marzo ‘23. Entro il giugno di quell’anno il porporato, con la sua équipe, appronterà il secondo testo-base e lo invierà alle persone e organismi interessati. Infine, nell’ottobre di quell’anno a Roma si celebrerà l’Assemblea sinodale.
Una vastissima consultazione, dunque, pur caratterizzata da successivi filtri. Rimarranno “vivi”, dalle fasi diocesana e nazionale, e fino alla continentale, i problemi tabù eventualmente emersi dalla multiforme consultazione del “popolo di Dio”? Questo, di per sé, non è certo, perché – per ora, e dunque nel 2023 – l’ordine del giorno è quello di ammodernare e perfezionare l’istituzione sinodale che, poi, negli anni successivi, dovrebbe di volta in volta affrontare temi specifici sempre preparati da un “processo” sinodale che parte dalla base.
È tuttavia probabile che, in qualche modo, alcune Chiese – come la Chiesa tedesca a livello europeo, e quella australiana a livello di Oceania – pongano sul tavolo le indicazioni pur ”spinose” emerse dal Synodaler Weg e dal Concilio plenario del nuovissimo continente, anch’esso in corso. Se poi tale ipotesi – con grande sollievo della Curia romana – non si verificasse, un’altra questione capitale, irrisolta nel e dal vademecum vaticano, già incombe, e andrà crescendo nel “periodo preparatorio”: nell’Assemblea del ’23, al pari dei “padri” sinodali, vi saranno anche le “madri”? Infatti, anche se si parla di “Sinodo dei vescovi”, è del tutto probabile che alcuni episcopati nazionali, o continentali, esprimano tale esigenza; ma, portata avanti coerentemente, essa metterebbe a rischio, in prospettiva, l’istituzione “episcopale” pensata da Paolo VI nel 1965 e nella sostanza confermata da Francesco nel 2018, tendenzialmente trasformando l’Assemblea in un Sinodo del popolo di Dio.
Tale “sviluppo”, del tutto coerente con la Lumen gentium, supererebbe i limiti dell’architettura sinodale, ma anche ecclesiale, pensati da Bergoglio; non sarebbe possibile, infatti, risolvere il problema con un semplice ritocco di facciata, ad esempio ammettendo al Sinodo “dei vescovi” una decina di donne, con diritto di voto. Una tale scelta “simbolica” renderebbe ancora più evidente il maschilismo della Chiesa romana. D’altra parte, senza una ridiscussione radicale dei ministeri, che a nessun livello escludano la donna, sarebbe arduo sperare di risolvere, in via pastorale, un nodo irrisolto a livello di princìpi fondativi della Ekklesìa. E, cioè, la questione biblica e teologica della plausibilità delle donne in tutti i ministeri.
Tale scoglio non potrà essere evitato, col pretesto che il Sinodo si occupa solo di questioni “pastorali”: prima o poi, inevitabilmente occorrerà affrontare i “princìpi” dogmatici che – a parte l’esperienza della prima Chiesa, sulla quale il dibattito è aperto – in casa cattolica, e invocando il nome di Dio, da sempre escludono le donne dall’altare e dal calice. Si dovrà perciò distinguere tra i princìpi intangibili, se fondabili sulla Bibbia e sulla volontà di Cristo, e quelli figli di un particolare periodo storico e di una cultura datata che andrebbero relativizzati e abbandonati, per quanto da secoli proclamati dal magistero papale e conciliare.
La gigantesca questione, irrisolta anche nel pontificato in atto, rischia di terremotare l’iter delineato da Bergoglio. Ma intanto, dal punto di vista fattuale, una incisiva e audace attuazione del Synodaler Weg vaticano, potrebbe, in prospettiva, aprire un varco per cambiare il volto storico della Chiesa romana. Sempre che nelle singole diocesi, e poi nelle varie Conferenze episcopali, si proceda con ardimento e determinazione, ascoltando e raccogliendo davvero i desiderata del pueblo. Né è escluso che da un continente arrivi un forte “sì”, e da un altro un tenace “no”, all’idea di ridiscutere dalle radici il “no” – severo di Paolo VI e severissimo di Giovanni Paolo II – all’accoglienza della donna in tutti i ministeri ecclesiali. O forse, dallo stesso continente verranno due tesi irriducibilmente contrapposte.
Potrebbe allora verificarsi la impossibilità, per una Chiesa “sinodale”, di affrontare tale mole di problemi; e sarebbe dunque l’ora di una Chiesa “conciliare”, con i suoi “padri” e le sue “madri”, abilitata a tagliare gli intricati nodi gordiani che incatenano la Chiesa cattolica romana, e che non sono stati sciolti del tutto dal Concilio Vaticano II seppure esso, prospettando nella Lumen gentium la Chiesa come il popolo di Dio che cammina nella storia, abbia adombrato un cambiamento decisivo, intuito ma non compiuto, perché esso esige niente di meno che una Riforma.
In questa ampio spettro di problemi è venuto a trovarsi, certo senza volerlo – ma la storia non fissa gli appuntamenti! – il Sinodo della Chiesa italiana, suggerito da Francesco nel 2015 al Convegno ecclesiale di Firenze, ignorato dalla Conferenza episcopale italiana, dal papa riproposto all’inizio del 2021 e finalmente, in maggio, da essa prospettato, seppure in modo germinale e per ora vaghissimo (non è ancora chiaro se si farà un Sinodo, o si opterà invece per un Cammino sinodale che ha minori lacci giuridici). Comunque, per capire se si vorrà fare sul serio, occorrerà vedere come questo evento sarà immaginato, come attuato, chi vi partecipi, con quale parresìa si enuncino, e poi si trattino, i problemi, visto che il presidente della Cei, cardinale Gualtiero Bassetti, ha messo le mani avanti dicendo che in Italia non esistono i problemi tabù delineati nel Synodaler Weg.
In proposito, assai più corposo e concreto il pensiero che quindici gruppi, organizzazioni e riviste – eco del variegato mondo cattolico “conciliare” (tra cui Adista, Centro interconfessionale per la pace-Cipax, Comunità cristiane di base, Coordinamento teologhe italiane, Donne per la Chiesa, Il foglio, Noi siamo Chiesa, Pax Christi, Pretioperai, Progetto giovani cristiani lgbt+, Viandanti) – hanno auspicato a metà maggio ’21 : «Il percorso sinodale sia il più aperto, inclusivo e partecipativo possibile, coinvolgendo non solo chi frequenta abitualmente le nostre parrocchie e associazioni, ma pure quanti, per diverse ragioni (anche di visione etica o teologica), sono stati messi ai margini o si sono allontanati dalle nostre strutture pastorali. Solo un processo di profondo ascolto, di autentica discussione, di dialogo sincero, di ricerca comune e di deliberazione condivisa, che implichi tutte le componenti del corpo ecclesiale e tutte le voci (comprese quelle ferite o critiche e interpellando anche i fratelli e le sorelle delle altre Chiese cristiane), chiamate a esprimersi su un piano di parità, con piena libertà e senza argomenti “proibiti”, può, infatti, innescare quella conversione pastorale sempre invocata».
Secondo questo appello, per fare un proficuo lavoro, occorrerebbe partire da alcune chiare prese d’atto: «l’esaurimento del modello ecclesiologico della Chiesa italiana; questo è nella sostanza ancora espressione di un regime di cristianità che non risponde più alla realtà del nostro paese, ma sopravvive nell’immaginario o nelle nostalgie, per cui va rivisitato criticamente, riconoscendo anche quanto di esso nei decenni scorsi ha oscurato il messaggio evangelico; l’insufficienza, confermata dalla pandemia, della parrocchia tradizionale quale canale di evangelizzazione/trasmissione della fede; la distanza sempre più percepita tra insegnamento della Chiesa e vita delle persone; la difficoltà della nostra Chiesa, pur capace di promuovere innumerevoli e lodevoli iniziative di carità, a “dire una parola rilevante” nelle gravissime crisi vissute dall’Italia nel 2008 e oggi».
Ciò implica, prosegue l’appello, affrontare almeno due questioni decisive: «la forma con cui i credenti vivono la fede insieme oggi (quindi l’organizzazione della comunità, la centralità della Parola, i ministeri ecclesiali, il ruolo delle donne, la visione della sessualità e la presenza delle persone lgbt, il rinnovamento della modalità celebrative, la formazione del clero, gli abusi di potere, coscienza e sessuali sui più fragili, la trasparenza delle finanze e la gestione dei beni ecclesiastici, ecc.); il come la comunità ecclesiale può offrire un servizio significativo alla nostra società, (quindi la centralità di ultime e ultimi, il pluralismo religioso, la presenza delle comunità immigrate, il rapporto con la politica, la laicità dello Stato, l’impegno per la pace, la giustizia e l’integrità del creato, il dialogo ecumenico e interreligioso, ecc.)».
Anche storici come Fulvio De Giorgi e Daniele Menozzi – che hanno una conoscenza approfondita della complessa realtà della Chiesa cattolica in Italia, ieri e oggi – hanno scritto pagine assai utili per “situare” il progettato Sinodo. Esso era stato auspicato, a suo tempo, anche da p. Bartolomeo Sorge, direttore de La Civiltà Cattolica, rivista dei gesuiti che, adesso, certamente sosterrà l’iniziativa desiderata da Francesco.
Se, come dice Andrea Riccardi, La Chiesa brucia
Concludiamo la nostra carrellata parlando de La Chiesa brucia. Crisi e futuro del cristianesimo [Laterza, aprile 2021, pag. 248, euro 20], saggio scritto da Andrea Riccardi, anch’egli uno storico che molto si è occupato della Chiesa romana nelle vicende del Novecento, e del Concilio voluto da Giovanni XXIII. L’autore, infatti, come fondatore della Comunità di Sant’Egidio, e organizzatore degli incontri mondiali “Uomini e Religioni” per favorire la pace, è particolarmente legato al mondo vaticano, e dunque un sismografo del “sentire” di quella realtà e da quella realtà valutare le problematiche che scuotono e interpellano il cattolicesimo mondiale all’alba del terzo millennio, regnante papa Francesco.
Essendo il suo libro uscito in aprile, egli non ha potuto valutare la vicenda Marx; tuttavia espone delle considerazioni sulla Chiesa tedesca – come su altre europee e americane – che molto aiutano a inquadrare le ultimissime vicende. Il volume è ricco di dati sul cattolicesimo mondiale, e su singole Chiese nazionali: dati sulla crescita, o il calo, del numero di sacerdoti, o su altri aspetti che dicono la forza, o la debolezza, di una determinata comunità. Egli dipinge la Chiesa com’era ai tempi di Pio XII, papa preoccupato di certi ardimenti dei cattolici francesi; il Vaticano II e i cambiamenti da questo promossi; la crisi del post-Concilio che, per certi aspetti, turba assai Paolo VI; l’impegno di papa Wojtyla per mettere in crisi i regimi dell’Est legati all’Urss, e anche la sua difficoltà a misurarsi con la sfida della modernità; i chiaroscuri del pontificato di Joseph Ratzinger; le novità di Francesco.
Insomma, chi legge ha davanti a sé un’ampia, densa, documentata rassegna degli ultimi ottant’anni della Chiesa cattolica, scritta da uno storico di vaste conoscenze. Una Comunità, oggi diffusa in tutto il mondo, solcata da realtà incoraggianti ma, anche, da una crisi – non creata dalla pandemia del Covid, ma da essa acuita – che apre domande inquietanti: ha essa, un futuro? Sì, esso è possibile, afferma Riccardi, perché la crisi, se correttamente affrontata, dischiude nuove possibilità; e, sulle terapie perché le speranze si avverino, egli propone alcune interessanti piste di riflessione, e indica alcuni rimedi, quali la valorizzazione delle donne. In proposito – a nostro modesto avviso – sarebbe stato tuttavia necessario rimarcare con maggior forza che la Chiesa romana perderà la partita se non avrà il coraggio – biblico, storico e teologico – di ridiscutere dalle radici il permanente rifiuto “dogmatico”, non oltre sostenibile, di dischiudere tutti i ministeri ecclesiali all’altra metà della Chiesa.
Francesco non intende, a quanto pare, aprire questa strada; d’altronde anche su questioni molto minori, e riguardanti il governo della Chiesa, il suo passo è affaticato: proprio ieri, festa dei Santi Pietro e Paolo, egli non ha detto una parola conclusiva – da molti attesa – sulla più volte preannunciata riforma complessiva della Curia: a dimostrazione che anche in quell’àmbito permangono nodi canonici – e forse teologici – irrisolti.
Come paradigma della crisi della Chiesa cattolica, Riccardi assume l’incendio che nella notte tra il 15 e il 16 aprile 2019 ha distrutto a Parigi la cattedrale di Notre-Dame. Quel tempio stupendo potrà certo essere ricostruito, lasciandolo all’apparenza identico a come lo edificarono nel Medioevo e, al tempo stesso, grazie alle tecniche sofisticate oggi possibili, profondamente modificato e garantito per secoli contro incendi e cataclismi. Fuori metafora, lo storico ricorda le molte crisi che, in duemila anni, la Chiesa di Roma ha affrontato; quella attuale è una della lunga serie, o del tutto diversa, e assai più pericolosa? Senza addentrarci nell’analisi dello studioso, diciamo – per parte nostra – che la novella Araba fenice potrebbe forse rigenerarsi dalle sue ceneri, a patto che abbia il coraggio di spogliarsi dei mille paludamenti ereditati dalla storia e dei mille poteri sulle coscienze incistati sul suo antico albero, per ritrovarsi rivestita di solo, nudo Evangelo, che annuncia Cristo morto e risorto.
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Luigi Sandri
Redazione Confronti