di Paolo Naso. Docente di Scienza politica all’Università Sapienza di Roma.
Dall’attacco del 7 ottobre scorso a Israele da parte di Hamas, che ha scaturito una controffensiva enorme di Israele e un conflitto che sta generando decine di migliaia di morti, si sono pronunciate troppe certezze e sono state pronunciate troppe parole d’odio, talvolta ammantate da parole nobilitanti come “verità”, “giustizia “, “pace”.
Dal 7 ottobre si sono pronunciate troppe certezze e sono state pronunciate troppe parole d’odio, talvolta ammantate da parole nobilitanti come “verità”, “giustizia “, “pace”. In questo clima di divisione e di contrapposizione frontale, si è smarrita la possibilità di ragionare sulla portata di eventi incalzanti e drammatici e, invece di sviluppare il ragionamento e il confronto – sia pure aspro e diretto – su una questione oggettivamente e drammaticamente complicata, hanno compattato blocchi speculari, ciascuno dei quali chiede solidarietà “senza se e senza ma”. L’appello è allo schieramento e alla mobilitazione unilaterale nel nome del rozzo e primordiale convincimento che “chi non è con Israele, è necessariamente contro Israele” e, all’opposto, chi non sta dalla parte dei palestinesi e delle loro strategie, è automaticamente un nemico della loro causa e dei loro diritti. Semplificando ulteriormente, chi non sostiene Netanyahu, oggettivamente parteggia per Hamas; e chi denuncia le nefandezze di Hamas e del Jihad islamico è, nei fatti, un “sionista” non dissimile dai coloni che minacciano una nuova occupazione di Gaza. La richiesta costante e bilaterale è stata quella di schierarsi, da una parte o dall’altra, negando legittimità a posizioni diverse o – come dire? –, sfumate. Il problema è che questo schema polarizzato uccide ogni possibilità di ragionamento e di ricerca di quella mediazione politica che, sola ed esclusiva possibilità, potrebbe definire una exit strategy dall’inferno in cui sono ripiombati sia i palestinesi che gli israeliani.
UNA GUERRA LUNGA CENT’ANNI
Questa guerra, che divide più di altre perché più di altre ha implicazioni politiche, culturali e religiose che si perdono nella notte dei tempi, ci fa più male perché attraversa anche la nostra storia europea. Facciamola corta e partiamo da cento anni fa, dagli effetti sul Medio oriente della spartizione coloniale tra le potenze del tempo. È del 1917 la Dichiarazione di Lord Balfour con cui il Foreign Office britannico rilasciò una nota in cui il governo di Sua Maestà si esprimeva a favore della costituzione di «un focolare nazionale per il popolo ebraico», sia pure precisando che con questo orientamento non si intendeva affatto pregiudicare «i diritti civili e religiosi delle comunità non ebraiche della Palestina». Era la logica del colonialismo, in base alla quale si tracciavano confini, si dividevano i popoli, si attribuivano o si espropriavano territori a seconda delle convenienze politiche.
A seguire, la violenta repressione da parte della Gran Bretagna della popolazione palestinese durante la cosiddetta Grande rivolta araba (1936-1939) – che vide anche le rappresaglie dell’Haganah, un corpo ebraico para-militare, e le azioni terroristiche dei gruppi sionisti Irgun e Banda Stern – che indebolì la comunità palestinese e rafforzò la controparte sionista, portando a una maggiore divisione tra le due comunità, rafforzando l’idea che la convivenza pacifica non fosse più possibile. Poi ancora le leggi razziali contro gli ebrei e la Shoah sono stati gli sviluppi di una campagna d’odio antisemita che origina dai tempi della prima cristianità e che, di nuovo, in Occidente ha visto le sue più nefande realizzazioni. Il piano di spartizione della Palestina votato dall’Onu (181) nel 1947 era figlio naturale di questo dramma, tentativo disperato di comporre due nazionalismi: quello sionista e quello arabo palestinese. Come ben noto, quel progetto fu accettato dal movimento sionista che sotto il mandato britannico si era ormai radicato nei territori arabi come entità nazionale ma fu respinto dai Paesi arabi che lo giudicarono lesivo della loro sovranità nazionale. Fu la guerra e, con essa, la “nakba” (disfatta, catastrofe), successivamente coltivata come perno di un’identità nazionale palestinese fino ad allora incerta e sfumata nell’appartenenza al mondo arabo.
E poi, il 1967, anno di una svolta militare che istituzionalizza l’occupazione di Cisgiordania e Gaza, destinata a durare oltre ogni termine sostenibile e accettabile. Di nuovo, la risoluzione dell’Onu (242) che nel solco del principio dei “due popoli due stati” postulava il ritiro di Israele in cambio della pace da parte palestinese e araba, resta inapplicata. Nel 1973 parlano di nuovo le armi, nei fatti congelando i rapporti di forza sul terreno e quindi il regime di occupazione israeliana dei palestinesi di Cisgiordania e Gaza. Sono gli anni delle azioni paramilitari su larga scala, dei dirottamenti aerei, degli attentati palestinesi contro la sinagoga di Roma (1982) nel quale rimase ucciso il piccolo Stefano Gaj Taché; della nave Achille Lauro (1985).
Successivamente, il crollo del Muro di Berlino e la fine della Guerra fredda facevano sperare che l’ottimismo con cui almeno in Europa si guardava al futuro avesse conseguenze anche sulla scena mediorientale. In effetti, qualcosa accadeva perché si apriva una finestra di opportunità determinata dalla convergenza di vari fattori: gli effetti di un’intifada palestinese con un’anima popolare – all’origine addirittura nonviolenta – che esercitò una certa influenza sull’opinione pubblica internazionale; la disponibilità di un gruppo di mediatori a Oslo; l’impegno dell’amministrazione Clinton. Oltre, ovviamente, ai convergenti interessi di due personalità che, proprio perché avevano fatto la guerra, sembravano le persone giuste a firmare anche la pace: Yasser Arafat da una parte e Yitzhak Rabin dall’altra.
Si arriva così agli accordi del 1993: una pace “fredda”, funestata dalla strage di Hebron del 1994 (29 palestinesi uccisi mentre pregavano nella Tomba dei patriarchi); dall’assassinio di Rabin – ad opera di un terrorista israeliano – nel 1995; e infine dallo scoppio della seconda intifada che, diversamente dalla prima, ebbe soprattutto il carattere di azioni terroristiche contro la popolazione civile israeliana. In questa fase, complici l’invecchiamento di Arafat, la corruzione di tanti alti funzionari dell’Olp e il sostanziale fallimento degli accordi del ’93 che si esprimeva in una costante crescita delle colonie ebraiche in Cisgiordania, Hamas prende il sopravvento a Gaza e condiziona il clima politico dell’intero Cisgiordania. Crescono gli attentati contro vittime civili israeliane arrivate, nel 2002, a 238; sul fronte opposte aumentano a dismisura le incarcerazioni preventive anche di civili palestinesi, la distruzione delle loro case e dei loro parenti. Nel 2002 Israele inizia a chiudere e a segmentare il territorio di Cisgiordania con un muro che avrà effetti drammatici sull’economia, la mobilità e la qualità di vita di tre milioni di persone. Cento anni di guerra non si possono raccontare in poche righe ma con qualche data e qualche fatto abbiamo voluto condensare una storia che non ha vincitori: come ha dimostrato l’attentato del 7 ottobre, gli israeliani non hanno né pace né sicurezza; come ha reso evidente la cronaca mediorientale dall’8 ottobre ad oggi, i palestinesi – schiacciati dalla logica terroristica di Hamas e vittime della smisurata ritorsione israeliana, non hanno né giustizia né diritti. Al di là delle ricostruzioni storiche e delle recriminazioni per le occasioni perse e gli errori commessi, la sostanza è che da mesi assistiamo a uno scempio bilaterale e speculare dell’umanità, del diritto, della logica politica. Sia alla leadership palestinese – oggi di fatto egemonizzata da Hamas – che a quella impersonificata in un resuscitato Netanyahu, potremmo porre le stesse domande. Guardando alle formule del passato e a quelle del futuro, infine, rileviamo che la Cisgiordania “non esiste più”, ridotta a una serie di francobolli di terra separati a enclave israeliane che controllano le alture, le vie di comunicazione, le infrastrutture primarie. Da qui la domanda: dove potrà mai nascere la Palestina? Provando a mettere da parte questo interrogativo evidentemente troppo impegnativo, sorgono altre domande.
ALCUNE DOMANDE PER IL FUTURO
La prima. E ora che succede? Dopo la mostruosità degli sgozzamenti e delle violenze, qual è l’obiettivo politico di Hamas? In che modo il 7 ottobre ha migliorato la vita dei palestinesi di Gaza? Chi ha la responsabilità morale e politica di un progetto politico che “butti Israele a mare” e consegni l’intera Palestina – “dalla Galilea a Gaza, dal Giordano al Mediterraneo” – ai palestinesi? Come è possibile che in Occidente vi sia ancora chi possa dare credito a questa grande menzogna nel nome della quale abbiamo contato migliaia di morti?
E sul fronte israeliano, che cosa ci sarà dopo la distruzione di Gaza? Una nuova occupazione? Il sogno di un protettorato egiziano? Un regime fantoccio? E soprattutto, decapitata Hamas, quale strategia per evitare che i bambini rimasti senza casa, senza scuola, senza famiglia non diventino i martiri suicidi di domani, educati e manipolati da una nuova formazione politica o religiosa o da una nuova generazione di fondamentalisti di Hamas? E quale risposta dare ai giovani che chiedono normalità, a quella quota della popolazione israeliana oggi azzittita dalle sirene dai bollettini militari ma che pure chiede la pace?
Diversamente da altri che hanno ferree certezze e che sanno perfettamente come schierarsi, noi non abbiamo le risposte che servirebbero. Dobbiamo cercarle con fatica, iniziando ad ascoltare chi tra gli israeliani e i palestinesi riesce ad andare oltre la logica degli schieramenti e della lotta dura e pura. Piuttosto che schierarci in un conflitto che ci fa orrore, scegliamo di attraversarlo, cercando gli appigli per non rimanerne travolti. Non è equidistanza ma – come ci ha insegnato Carlo Maria Martini – equivicinanza: l’intenzione di essere vicini a due popoli che condividono torti e ragioni, speranze e frustrazioni, ideali e immoralità, ricchezze spirituali e parole blasfeme.
Proprio da Confronti, trent’anni fa, partì l’idea di un progetto denominato Semi di pace che ebbe per obiettivo l’incontro tra esponenti della società civile israeliana e palestinese. I fatti degli ultimi mesi avranno eliminato ogni residuo di quell’esperienza, che forse oggi non è né attuale né prioritaria. Ma lo è il senso che la orientava: nel tempo dell’odio, restituire l’umanità dei popoli e delle persone; di fronte alla logica del muro contro muro, aprire brecce di dialogo; quando i fondamentalismi settari e violenti sequestrano il nome di Dio, affermare i valori dell’umanità e della giustizia. Ognuno deve fare la sua parte ma in questo spazio di riflessione e impegno, una testata e un Centro studi come Confronti possono darci una prospettiva di lavoro e di speranza.
Ph. Striscia di Gaza © Tomer Texler/ CopyLeft

Paolo Naso
Docente di Scienza politica all’Università Sapienza di Roma.
1 commento
Bravissimo Paolo. Il problema sono le leadership politiche di entrambi i fronti, purtroppo egemonizzate dai fondamentalismi religiosi e nel caso specifico del governo israeliano anche fasciste. In questo momento non si vede luce. Si vede solo odio e guerra senza fine.
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