di Raul Caruso. Economista, Università Cattolica del Sacro Cuore (Milano). Direttore del Center for Peace Science Integration and Cooperation (CESPIC) di Tirana.
Nel momento in cui questo articolo viene completato sembra che vi siano prospettive per la fine della guerra tra Russia e Ucraina. L’amministrazione Trump ha urgenza di concludere un accordo di “pace” e per questo negozia direttamente con Vladimir Putin. In questa notizia, è necessario distinguere tra le buone notizie e le cattive notizie.
La buona notizia sarebbe ovviamente che la cessazione delle ostilità – un “cessate il fuoco” – risparmierebbe finalmente vite umane che dopo poche settimane erano già scomparse dalle cronache giornalistiche. Le cattive notizie riguardano viceversa le condizioni alle quali tale accordo di “pace” dovrebbe realizzarsi. Se le dichiarazioni di Donald Trump dovessero trovare una piena realizzazione, in pratica si ammetterebbero le ragioni del Cremlino, e ammettere le ragioni di Mosca equivale ad ammettere che la guerra è ancora il modo da preferire degli Stati per far valere i propri interessi.
In altre parole, se davvero Trump costringesse gli ucraini a concedere al Cremlino una sorta di vittoria, avremmo assistito alla pietra tombale sull’ordine liberale che gli Stati avevano costituito e rafforzato dopo le Seconda guerra mondiale. Le decisioni di Donald Trump in questa direzione erano già ampiamente note, ma tra tutte le decisioni possibili questa rappresenterebbe la definitiva. Il caso chiuso.
E quindi il paradosso è che da un “cessate il fuoco”, che in realtà tutti noi vorremmo, potrebbero negli anni a venire determinarsi nuove guerre più o meno virulente. Questo perché ogni Stato, in particolare non democratico, si sentirebbe legittimato a regolare i propri conti con la forza e gli interventi militari non sarebbero più minacciati ma realizzati.
Se già fino a oggi il mondo non si è liberato dalla piaga della guerra, dopo questo la malattia potrebbe ripresentarsi in forma più acuta e virulenta. Per questo motivo gli Stati che intendono preservare la democrazia e i valori liberali sono chiamati a impegnarsi per partecipare a tale negoziato favorendo il “cessate il fuoco” ma senza cedere rispetto all’idea dell’amministrazione americana, quantomeno dichiarata, di dare legittimità alle ragioni di Vladimir Putin.
In questo senso, l’idea che alcune aree ucraine vedano la presenza di una missione di peacekeeping in seguito al “cessate il fuoco” chiama i Paesi europei a un ruolo apparentemente secondario ma in realtà decisivo poiché gestire il periodo post-bellico è incredibilmente complesso ma nel contempo foriero di opportunità in termini di coesione e integrazione politica così come era stato il Dopoguerra in Europa dopo il 1945.
Peraltro, se come è ormai chiaro l’ipotesi, già pressoché impraticabile, di far aderire l’Ucraina alla Nato è tramontata definitivamente, tocca all’Unione europea accelerare perché Kiev diventi membro dell’Unione.
Senza ambiguità è necessario comprendere che di fronte alla prospettiva che sta prendendo forma, un disengagement dell’Ue sull’allargamento all’Ucraina rafforzerebbe la disintegrazione dell’ordine liberale che ci ha garantito sicurezza e benessere per molti anni. Invero, pur con tutti i vincoli e i limiti che conosciamo, la vecchia Europa è chiamata a salvare la “Pace” intesa come quell’insieme di regole che nega legittimità all’uso della forza e della violenza come strumento della politica e della risoluzione delle controversie.
L’auspicio è che la classe dirigente europea comprenda tale ruolo e non presti il fianco a ipotesi di disintegrazione della cui pericolosità molti sembrano non accorgersi.
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Raul Caruso
Economista, Università Cattolica del Sacro Cuore (Milano). Direttore del Center for Peace Science Integration and Cooperation (CESPIC) di Tirana.