di Mostafa El Ayoubi
La ripresa di Aleppo all’inizio del mese di dicembre scorso da parte dell’esercito siriano, sostenuto da quello russo, ha segnato una fase nuova nella guerra in Siria che dura da circa 6 anni e che ha provocato la morte di oltre 300mila persone e costretto alla fuga oltre 11 milioni tra sfollati e profughi (su una popolazione di circa 23 milioni nel 2013). La zona est della seconda più importante città del Paese fu occupata nel 2012 dai jihadisti di al Qaeda anche con il sostegno logistico del governo turco. Diversi elementi hanno provato che intere fabbriche della città più industrializzata del Paese sono state smantellate e i macchinari venduti nel mercato clandestino turco con la tacita complicità dell’autorità di Ankara.
Come da copione, i media mainstream hanno bollato l’evento “la resa” di Aleppo, come se la città fosse di un altro Paese e non come parte integrante del territorio siriano che gli estremisti jihadisti venuti da oltre 80 paesi (ceceni, pakistani, cinesi, arabi europei, americani ecc.) hanno invaso con il sostegno dei Paesi arabi del Golfo e della Turchia. I terroristi di al Qaeda hanno occupato la sua parte orientale e lanciato attacchi senza successo – ma con danni gravi in termini di morti e feriti – sul resto della città rimasta sotto il controllo del governo siriano. Ma su quest’ultimo aspetto i media hanno mantenuto un profilo basso, nonostante gli appelli lanciati dai cittadini e dalle comunità religiose musulmane e anche cristiane, come ci ha rivelato l’arcivescovo di Aleppo Joseph Tobji in un’intervista esclusiva alla nostra rivista (vedi Confronti 11/2016).
Ora il governo di Damasco controlla le città che costituiscono la colonna vertebrale della Siria: Damasco, Aleppo, Hama e Homs. Ed è probabile che nei prossimi mesi, se non settimane, si possa assistere ad una vasta operazione militare congiunta tra Siria, Russia, Iran e Hezbollah per liberare Idlib, der Ezour e Tadmur (Palmira). E quindi il progetto della frammentazione della Siria, per la quale ha lavorato intensamente l’alleanza guidata dagli Stati Uniti, sembra ormai fallito. I rapporti di forza ora pendono a favore della coalizione guidata da Mosca. Per di più la mancata elezione di Hillary Clinton, la quale avrebbe assicurato una continuità della politica interventista adottata da Obama e prima ancora dai suoi predecessori, potrebbe essere un elemento in più a favore del ripristino di un certo grado di stabilità in Siria, Iraq, Libia, Yemen e nel resto del mondo arabo. Il primo ostacolo resta tuttavia quello dei gruppi jihadisti di al Qaeda e del suo derivato Daesh, molto ramificati e capillari in gran parte del Medio Oriente, del Maghreb, nel Sahel e in forme di cellule dormienti anche nel vecchio continente, compresa la Russia. L’unico Paese che sembra oggi fuori pericolo reale sono gli Usa, il cui governo in passato ha favorito la creazione di al Qaeda come la stessa Clinton ha ammesso in un suo recente libro autobiografico. Inoltre vari documenti wikileaks e email della stessa Clinton trapelati negli ultimi tempi hanno dimostrato che questo legame non ha mai cessato di esistere.
Ora l’incognita con la quale si avvia il nuovo anno è quella relativa alla ancora non rivelata strategia del nuovo inquilino della Casa Bianca, Donald Trump, il quale durante la sua campagna elettorale ha annunciato di voler adottare una nuova politica estera che non contempla l’interventismo americano abroad. Se il nuovo presidente manterrà la sua parola, Washington e Mosca potranno giungere ad un accordo che garantisca una ripartizione formale del Medio Oriente in zone d’influenza che soddisfino entrambe le potenze e salvaguardino le sovranità dei Paesi colpiti dal terrorismo salafita, come la Siria e l’Iraq.
Uno scenario simile, da un lato, potrebbe contribuire a debellare il flagello del terrorismo e arginare l’influenza delle reazionarie petromonarchie che lo diffondono e dall’altro lato avviare un nuovo equilibrio mondiale multipolare basato sul rispetto del diritto internazionale e favorire una riforma radicale dell’Onu che consenta ad essa di gestire e mediare in modo imparziale i conflitti internazionali. Un primo segnale incoraggiante che va in questa direzione è l’avvicinamento tra Mosca e Ankara sigillato dall’incontro nell’agosto scorso a San Pietroburgo tra Putin e Erdogan. Un avvicinamento che sembra di sostanza: ha di fatto consentito ai russi di chiudere la partita di Aleppo; ha inoltre superato ciò che solo 40 anni fa avrebbe potuto provocare una guerra su scala mondiale, ovvero l’uccisione dell’ambasciatore russo in Turchia, nel dicembre scorso. Ancora una volta il Cremlino ha dato prova di lungimiranza e pragmatismo geopolitico. Ora toccherà a Washington fare altrettanto!
(pubblicato su Confronti di gennaio 2017)