di Tonino Perna. Economista e sociologo.
Quando si affrontano le problematiche del “lavoro” nella nostra società bisogna innanzitutto disfarsi di alcuni luoghi comuni. Il primo: il lavoro nobilita l’uomo. È vero solo per alcuni lavori in cui una persona si può esprimere e realizzarsi, mentre è falso per la gran parte dei lavori che sono ripetitivi, pericolosi, stressanti e che, per giunta, vengono mal pagati. Il secondo: «chi non lavora non fa l’amore», come recitava una famosa canzone di Celentano. Assolutamente falso: in genere avviene il contrario.
Infine, un luogo comune molto diffuso: i disoccupati sono persone che non vogliono lavorare. Falso e vero allo stesso tempo, perché bisogna specificare la qualità della domanda di lavoro. Per esempio, in Italia secondo gli ultimi dati Istat abbiamo un tasso di disoccupazione dell’8% per gli adulti e di 23% a livello giovanile.
Di contro, abbiamo una domanda inevasa da parte delle imprese di circa 300.000 posti di lavoro. Infatti, esiste una disoccupazione “volontaria” rispetto ad un certo livello di salario e condizioni di lavoro. Perché questi disoccupati accettino qualunque lavoro, a qualunque livello salariale, bisogna che siano costretti dai “morsi della fame”, che come scriveva Karl Polanyi nella Grande Trasformazione è la chiave per capire l’origine del mercato del lavoro capitalistico.
In altri termini, perché un giovane calabrese disoccupato, e sono il 35%, accetti di andare a raccogliere le arance a Rosarno a 25 euro al giorno per 10-12 ore di lavoro, bisogna che muoia letteralmente di fame, così come un giovane pugliese vada a lavorare a Nardò o una ragazza italiana a fare la badante 24 ore su 24.
Da questa angolazione si capisce bene da dove nasce l’attacco al reddito di cittadinanza! In un quadro più generale, possiamo affermare che dopo la caduta del muro di Berlino nell’89 c’è stato un peggioramento delle condizioni di lavoro in gran parte dei Paesi occidentali, a causa della perdita di forza contrattuale dei sindacati di fronte a un mercato mondiale che ha messo in concorrenza i lavoratori di tutto il mondo.
Dagli anni ’90 del secolo scorso abbiamo assistito a un preoccupante regresso sociale, in termini di diritti dei lavoratori, di quota dei salari rispetto a profitti e rendite. In Italia, ad esempio, la quota del Reddito Nazionale che va al monte salari è sceso in trent’anni dal 58% a poco più del 45% , di contro sono cresciuti profitti e rendite finanziarie e immobiliari. Allo stesso tempo ha continuato ad avanzare la tecnologia e si è così creato una pericolosa convergenza tra regresso sociale e progresso tecnologico. Lo smantellamento della grande fabbrica fordista ha portato a una crescente parcellizzazione del lavoro che rende difficile organizzare i lavoratori, che tende a creare condizioni di subalternità del lavoratore e a mettere in discussione i contratti collettivi.
Infine l’emergere della finanza come potere egemone sull’economia reale ha prodotto non solo lo smantellamento di grandi aziende da parte dei fondi di investimento, ma ha reso anche invisibile chi è il vero padrone di queste aziende. Pertanto, viviamo in un tempo paradossale: il progresso tecnologico lungi dal liberare l’uomo dalla fatica, come ha fatto per tanto tempo, tende oggi a renderlo subalterno, ad aumentarne lo stress, a metterlo in concorrenza sfrenata con i suoi compagni di lavoro. Un buon esempio di quanto questo uso della tecnologia stia influendo su questi processi è dato dalla diffusione dello smart working.
La pandemia ha fatto emergere l’utilità di questo rapporto di lavoro, per i lavoratori e, soprattutto, per le imprese. Ma, allo stesso tempo, ha prodotto una maggiore possibilità di controllo del lavoratore, del suo tempo di vita e di lavoro, e una drastica riduzione della conflittualità, data la riduzione a monadi del singolo lavoratore.
Secondo la previsione di John Maynard Keynes nel nostro secolo, grazie al progresso tecnologico, sarebbero bastate poche ore di lavoro tre volte la settimana per «soddisfare l’Adamo che c’è in noi». Non solo ci siamo fermati alle otto ore di lavoro, una conquista degli anni ’20 del secolo scorso, ma in molti casi per sopravvivere i lavoratori sono costretti a fare gli straordinari o un doppio lavoro.
Per fortuna qualcosa si sta muovendo in senso opposto, in Spagna come in Germania, riducendo ore di lavoro e precarietà, con buoni risultati per l’intera società. È chiaro che questa è la strada che va perseguita a livello europeo.
Foto © Luis Villasmil via Unsplash

Tonino Perna
Economista e sociologo.